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Notiziario Marketpress di
Lunedì 23 Febbraio 2004
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PENSIONI: UNA RIFORMA INUTILE |
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Roma 23 Febbraio 2004 - “Provocare un clima di fibrillazione continua su argomenti come la riforma previdenziale o alimentare un clima di sfiducia verso la classe politica – proprio quando il fallimento degli imprenditori al governo sollecita l’urgenza di un recupero del primato della politica – sembra oggi far parte di una strategia di comunicazione dell’on. Berlusconi mirata a distrarre artificialmente l’attenzione dai veri problemi che affliggono la società italiana (dal declino di interi settori industriali all’erosione del potere d’acquisto delle retribuzioni) e sui quali questo Governo non sembra in grado di offrire risposte credibili”. Così Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, apre la nota sulla riforma del sistema pensionistico elaborata dal Governo. Secondo i calcoli dell’Eurispes, nel 2050 il 61,3% della popolazione attiva avrà un’ età superiore ai 65 anni, contro una media europea del 40,8%. Nel 2000 il tasso di dipendenza degli anziani in Italia era del 26,6% contro il 24,4% della media europea. Nel 2030 sarà invece pari al 45,6% contro il 37,8% di media europea. Sembra dunque prospettarsi un aggravio dello squilibrio nel rapporto tra ultra sessantacinquenni e popolazione attiva. Invece per quanto riguarda l’incidenza della spesa previdenziale sul Pil, il valore che nel 2000 era pari al 14,2% contro il 10,4% della media Ue, dopo aver raggiunto un picco nel 2030 del 15,9%, scenderà nel 2050 al 13,9%, contro il 13,2% della media Ue. Lo studio dell’Eurispes sul sistema pensionistico dal titolo: “La manovra previdenziale: una riforma inutile”, afferma che in Italia non vi è alcuna “emergenza pensioni”, visto che gli interventi fino ad oggi adottati (1992, 1995, 1997) hanno portato ad una sostanziale stabilità tra spesa per pensioni e Pil. “Oltretutto, l’entità della spesa per le pensioni è valutata al lordo dell’imposizione fiscale – spiega Fara – quindi, dalla spesa destinata alle pensioni deve essere sottratta una quota non inferiore ai 25 miliardi di euro che resta nelle casse dello stato sottoforma di Irpef: ciò, nel sistema a ripartizione, significa che una corrispondente somma della contribuzione previdenziale, anziché essere destinata ai pensionati, sottoforma di pensione, va ad incrementare l’Irpef. L’età di accesso alla pensione da parte dei lavoratori italiani è nella media europea e non meno della metà delle pensioni di anzianità (che abbassano la media dell’età) deriva dai decreti dello stesso Ministro del Lavoro che, accogliendo le richieste delle aziende, concede la mobilità di accompagno al pensionamento”. Non pochi, quindi, sono i pensionamenti di anzianità derivanti da forti incentivazioni alle aziende che desiderano alleggerire l’organico dei lavoratori anziani: se vi fossero adeguati ammortizzatori sociali, la spesa che va sotto la categoria “pensioni” potrebbe essere più contenuta. Non è quindi vero che in Italia si spende per le pensioni più della media europea. Inoltre, anche i dati ufficiali in circolazione relativi al 2002 e alla spesa per pensioni (ottenuta sommando invalidità, vecchiaia, superstiti), pari al 17,2% del Pil, e al 70,6% del totale delle prestazioni per la protezione sociale, non sono veri. “Depurando il dato di spesa per pensioni e rendite a carico delle Amministrazioni pubbliche – prosegue il presidente dell’Eurispes – delle poste di bilancio improprie, meglio classificabile come spesa assistenziale, la “spesa pensionistica pura” scende a 247.424 miliardi di euro, con un’incidenza del 47,3% sul totale della spesa per protezione sociale e dell’11,5% sul Pil. Sommando alla spesa pensionistica pubblica la quota erogata dal settore privato, il costo totale delle pensioni ammonta a 250.038 miliardi di euro, con una incidenza del 47,8% sul totale e dell’11,6% sul Pil”. La spesa per pensioni e rendite, così riclassificata, avrebbe un’incidenza di oltre tre punti percentuali in meno sul Pil rispetto al dato della Relazione generale, mentre quella più complessiva per Ivs (invalidità, vecchiaia, superstiti) passa dal 17,2% al 12,6 del Pil e dal 70,6% al 51,69 della spesa per protezione sociale. Le tre riforme degli anni Novanta hanno già determinato un risparmio di spesa pari a circa 100 milioni di euro e si prevedono ulteriori incrementi nella quota del risparmio, fino all’andata a regime del sistema. Questo significa che l’Italia, pur registrando il maggior livello di invecchiamento demografico tra tutti i paesi europei, nel 2050 sarà, comunque, il paese con il minor incremento di spesa previdenziale. Spesa previdenziale che va, peraltro, correttamente calcolata dal momento che ancora oggi diverse prestazioni di carattere assistenziale continuano ad avere copertura finanziaria dai contributi previdenziali versati all’Inps. Inoltre, sulle casse previdenziali gravano le situazioni deficitarie dei fondi speciali, da ultimo quello dei dirigenti di azienda (per l’intesa tra Governo e Confindustria). Quanti saranno i lavoratori coinvolti nella stretta pensionistica? Quali gli effetti sui conti previdenziali? Le cifre che sono circolate sul numero di lavoratori interessati dalla riforma sembrano il risultato di una cabala. Si oscilla da dieci milioni di lavoratori (quasi tutti i lavoratori dipendenti privati assicurati presso l’Inps) a poche centinaia. E’ noto che l’annuncio di riforme che irrigidiscono l’accesso alle pensioni di anzianità tende a stimolare forti uscite dal lavoro prima che il provvedimento venga attuato. Ad esempio, il blocco delle pensioni di anzianità nel 1993, 1995 e 1997 fu anticipato da un marcato incremento dei flussi verso il pensionamento, tale da vanificare quasi completamente gli effetti del blocco. Ogni anno circa 250mila lavoratori maturano i diritti. Fra questi, circa il 60% (attorno a 150mila) decide di andare in pensione, mentre il rimanente 40% (circa 100mila) continua a lavorare. Dunque, sono circa 700mila i lavoratori che potrebbero essere spinti a lasciare le forze di lavoro proprio a causa delle prospettive di un irrigidimento della normativa nel 2008. Stimando che l’effetto dell’annuncio anticipi mediamente di quattro anni l’andata in pensione (ciò che si ottiene dividendo lo stock con i flussi annuali di aventi diritto e non fruitori delle anzianità), si può calcolare un aggravio del debito delle casse previdenziali di circa 22 miliardi di euro (in valori del 2003). I lavoratori che subirebbero le conseguenze della riforma “senza poter fare nulla”, secondo le stesse stime, sarebbero circa 220mila, di cui il 60% (circa 130 mila) avrebbe fruito della pensione. Questi lavoratori nel 2008 avranno un’anzianità contributiva media di circa 36 anni e 58 anni di età, quindi verranno privati dall’accesso alle anzianità per, mediamente, quattro anni. Le “vittime” del provvedimento saranno quei lavoratori con più di 57 anni (ma meno di 65) che matureranno i 35 anni di contributi proprio nel 2008, e coloro che, avendo già maturato i 35 anni di contributi, compiranno 57 anni nel 2008. Questo effetto si trascinerebbe dal 2008 al 2014, quando le prime generazioni che hanno un trattamento pensionistico ibrido (basato per diciotto anni sul metodo retributivo e per i restanti su quello contributivo), maturerebbero i requisiti per le anzianità. Da allora in poi, non si avrebbero effetti apprezzabili, scaturiti dal rinvio dell’età di pensionamento, sul debito pensionistico. In totale, quindi, sarebbero circa 800mila i lavoratori coinvolti dall’inasprimento delle normative (con punte di circa mezzo milione all’anno), per una riduzione stimata del debito pensionistico di circa 25 miliardi di euro, a valori 2003. “Quindi conclude Fara – un muro troppo alto eretto nel 2008 rischia di scatenare una fuga negli anni immediatamente precedenti, tale da compromettere i risparmi conseguibili con l’inasprimento delle condizioni di anzianità. Un rischio tutt’altro che remoto: basti pensare che nel 2003 le domande per le pensioni di anzianità sono cresciute di un quinto rispetto all’anno precedente. Il solo parlare di tagli alle anzianità sembrerebbe aver portato quest’anno ad un incremento di quasi il 20% dei flussi verso le stesse. In genere, più rigida è la stretta più forte è l’effetto annuncio”. Un intervento più graduale, che spalmasse su più anni l’innalzamento dei requisiti contributivi minimi, provocherebbe meno fughe, ma avrebbe anche effetti molto più limitati sulla dinamica della spesa previdenziale perché interverrebbe quando cominciano a realizzarsi i primi effetti della riforma Dini.
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