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Notiziario Marketpress di Giovedì 09 Dicembre 2004
 
   
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  DAL TEATRO HABIMA DI TEL AVIV AL FESTIVAL DEL MEDITERRANEO VENERDI’ 10 DICEMBRE, SETTE GIORNI  
   
  Milano, 9 dicembre 2004 - Venerdì 10 dicembre, al Teatro Studio, ore 20.30, al Festival del Mediterraneo, il Teatro Nazionale “Habima” di Tel Aviv, uno dei più antichi ed autorevoli teatri israeliani, con Sette Giorni (Shavua) di Sholmi Moskovitz, regia di Dedi Baron, scene Dana Tsarfati, costumi Llil Iram, musica Israel Bright. “Tra inferno e paradiso”, così ha titolato una delle maggiori testate israeliane recensendo lo spettacolo firmato da Dedi Baron, regista formatosi alla scuola del Royal Court di Londra, attento interprete della contemporaneità. L’inferno è quello delle relazioni famigliari sclerotizzate (un padre, una madre, una figlia adolescente), il paradiso quello della rinascita psicologica cui va incontro la protagonista capace di evolvere - grazie anche al ruolo catalizzatore della figlia e di un vecchio amore - abbandonando vecchie abitudini rassicuranti. A scandire l’azione, il dettato biblico dei sette giorni della creazione,“una creazione del mondo – afferma l’autore Sholmi Moskovitz, classe 1961, tra i più amati dal regista Baron – fatta di opposti che dovrebbero combattersi uno con l’altro, ma che l’uomo creato a immagine di Dio ha la forza di portare ad una condizione armonica in cui uno completa l’altro”. Sulla scena nuda, pochi oggetti a tradurre un interno borghese dove si intravedono percorsi di umana infelicità di una famiglia-tipo. La madre, Tamar, scrittrice, è una donna delusa; il marito, Yotam è un medico ipocondriaco, terrorizzato dalla vita; la figlia diciottenne, Netta, cerca di “resuscitare” Dio nel mondo per dare un senso all’esistenza e “legge” metaforicamente gli eventi seguendo il primo capitolo della Genesi. Emmanuel, poeta, amore giovanile di Tamar, riappare nella sua vita dopo diciotto anni. Resterà nella sua casa per sette giorni, mettendo in crisi tutte le convinzioni su cui si fondano le vite dei personaggi, mandando in pezzi gli esili equilibri famigliari. La scena è semplice ma evolve con lo sviluppo dell’azione, trasformandosi da uno spazio vergine, potenzialmente aperto, ma freddo e disarmonico, in un luogo più caldo e uniforme. Lo stesso percorso seguono le luci e le musiche, che si “riscaldano” e si arricchiscono di sfumature col passare dei giorni. Il palco è diviso in quattro aree ben definite, a simboleggiare lo spazio vitale dei personaggi, i confini entro i quali interagiscono fra loro, si allontanano e si avvicinano, e “guardano” il mondo. “Vorrei tanto che ognuno elaborasse questo percorso – aggiunge l’autore Moskovitz – per trasformarlo in un sistema individuale di codici e costruire la propria esistenza a partire da se stesso e dal proprio vissuto, creando, come dice la Torà, ‘la sua propria specie’”.  Infolink: www.Piccoloteatro.org    
     
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