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Notiziario Marketpress di
Lunedì 28 Febbraio 2005
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TERAPIE DEL ‘PARKINSON’: QUI PURE ALL’ INSEGUIMENTO DI DOSI DOPANTI
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Reggello (Fi) - 28 febbraio 2005 - Occorre sin dall’inizio chiarire che i trattamenti usati nella cura della Malattia di Parkinson - farmaci, riabilitazione, neurochirurgia - finora sono tutti sintomatici, cioè riducono o sopprimono i sintomi, ma non modificano in modo sostanziale il decorso della malattia, che resta progressivamente invalidante: l’abbiamo comunque almeno rallentato, guadagnando degli anni di vita. Pertanto un parkinsoniano d’oggi è molto più ‘fortunato’ di un paziente di 30-40 anni fa, quando la cura principale era rappresentata dagli anticolinergici di sintesi, che avevano sostituito da poco tempo le tinture e gli infusi di fiori di Belladonna, ricchi dell’anticolinergico naturale atropina: in 5-6 anni ancora la maggior parte di questi malati perdeva comunque l’autonomia e la mobilità, e giungeva al decesso per complicanze respiratorie/polmonari. Terapia sintomatica dopaminergica. Invece oggi sia a) farmaci potenti sostituiscono direttamente la dopamina non più prodotta nel cervello dai neuroni della ‘sostanza nera’ in degenerazione, sia b) la riabilitazione motoria specifica assicurano, a partire dal momento della diagnosi/terapia, almeno un decennio di vita pressoché normale ed accettabile; inoltre in alcuni casi (1-2 per cento) molto avanzati, con la chirurgia si ripristina una buona risposta bio-farmacologica alla terapia dopaminergica sostitutiva: così riconducendo in pratica il paziente ad uno stadio meno avanzato di malattia. In realtà, nell’ambito della terapia dopaminergica sostitutiva, si deve differenziare la levodopa (precursore metabolico che all’interno del sistema nervoso si trasforma in dopamina) rispetto ai dopaminoagonisti (pramipexolo, ropinirolo, cabergolina),analoghi chimici della dopamina, che legandosi ai suoi recettori specifici al posto della dopamina scarseggiante, ne consentono un ‘risparmio’. I dopaminoagonisti sono entrati nell’uso più esteso giusto in questi ultimi dieci anni, affiancando e poi in parte sostituendo la levodopa che – non dimentichiamolo - circa 30 anni fa aveva comunque rivoluzionato la terapia del Parkinson, aprendo questa nuova strada. Ma ora i dopaminoagonisti, con il loro crescente impiego, testimoniano i limiti della levodopa che, dopo alcuni anni di somministrazioni, causa essa stessa, insieme alla malattia che progredisce, movimenti involontari e loro fluttuazioni. Infatti, alla fine di una non breve (5-6 anni) ‘luna di miele’ con la levodopa il paziente, quando ne assume una dose ottiene un miglioramento dei sintomi che dura sì 3-4 ore, durante le quali però ha dei movimenti involontari talora invalidanti, cui inoltre segue la ricomparsa dei sintomi propriamente parkinsoniani con riduzione della mobilità fino al blocco . Nella giornata questi cicli di tremori/blocchi si ripetono per 4-5 volte in relazione alle assunzioni di levodopa: purtroppo i preparati ‘ritardo’ non sono efficaci nell’assicurare un livello di farmaco costante ed anche l’aumento di numero delle somministrazioni oltre le 4-5 al giorno è controproducente perché l’assorbimento della levodopa è intestinale, quindi dipende strettamente dallo svuotamento gastrico. Per evitare/ritardare la comparsa di questa sindrome tardiva [che aveva meritato al ‘parkinson’ l’antica denominazione ‘ossimoro’ “paralisi agitante”], oggi si preferisce iniziare il trattamento subito con i dopaminoagonisti, piuttosto che farli precedere dalla levodopa: specie nei pazienti meno anziani, con una più lunga aspettativa di vita. Nella maggior parte dei pazienti che iniziano il trattamento con dopaminoagonista, è ad un certo punto comunque necessario aggiungere levodopa : quando il dopaminoagonista non è più in grado di controbilanciare da solo l’aggravarsi progressivo dei sintomi. Anche l’associazione già dall’inizio levodopa-dopaminoagonista - con la quale si realizza un risparmio nella dose totale giornaliera di levodopa e quindi una ridotta esposizione ai suoi cumulativi difetti collaterali - è in grado di ridurre il rischio di comparsa di fluttuazioni e discinesie. In sintesi la terapia dopaminergica sostitutiva si basa sull’impiego oculato di levodopa e dopaminoagonista: con una preferenza verso il dopaminoagonista per i pazienti più giovani, considerando comunque quasi certa, per la maggior parte dei pazienti, la necessità dell’aggiunta di levodopa nel corso dell’evoluzione della malattia. Terapie delle fasi avanzate. Dopo alcuni anni di trattamento con levodopa la malattia evolve in una fase avanzata caratterizzata dalle fluttuazioni dei sintomi motorii e da movimenti involontari (discinesie e distonie) e si complica talvolta pure con sintomi psichici, come allucinazioni e depressione, e meno frequentemente demenza. Spesso compaiono anche disturbi della postura e difficoltà a camminare, realizzando quel quadro di ‘freezing’/’congelamento’ per cui il paziente a momenti si immobilizza come ‘incollato’ al pavimento. Tutti questi disturbi sono trattabili con farmaci o con la riabilitazione, tuttavia con risultati di fatto modesti, se comparati ai risultati a suo tempo ottenuti dalla terapia dopaminergica: nei primi 8-10 anni di malattia. Ad esempio: per le ‘fluttuazioni’ si usa entacapone, inibitore enzimatico che prolunga la permanenza della levodopa nel plasma e quindi a livello cerebrale e che allunga di 1-2 ore la durata della risposta terapeutica alla levodopa stessa. Per le discinesie si ricorre ad un vecchio farmaco antinfluenzale, l’amantadina, che bloccando i recettori del glutammato riduce l’ipersensibilità dopaminergica . Per i disturbi cognitivi e psichici si usano i farmaci usuali come neurolettici atipici, inibitori dell’acetilcoliesterasi ecc. La neuroprotezione: Attualmente non sono disponibili farmaci capaci di bloccare il decorso di degenerazione progressiva dei neuroni dopaminergici nella sostanza nera, e quindi l’aggravarsi della malattia di Parkinson. Di fatto con un farmaco, od una combinazione di farmaci, ad effetto neuroprotettivo si sarebbe risolto, insieme ai farmaci sintomatici, il problema ‘Parkinsonì. Tuttavia un rallentamento della progressione sembra ottenibile con i dopaminoagonisti e con i farmaci inibitori delle monoamino-ossidasi: tali dimostrazioni, documentate anche da Pet e Spet con la ‘conta’ dei neuroni dopaminergici, non sono incontrovertibili e sono in discussione nella comunità scientifica. Ma la neuroprotezione, seppur parziale, appare sempre meno un miraggio e sempre più una risorsa per il ‘parkinsoniano’. (Da appunti del prof. Ubaldo Bonuccelli, Dipartimento Neuroscienze – Università di Pisa)
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