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Notiziario Marketpress di
Mercoledì 02 Marzo 2005
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IL VALORE AGGIUNTO DELL’ARTIGIANATO NELLE PROVINCE ITALIANE (ANNI 1995-2002) LA PROVINCIA A MAGGIOR “VOCAZIONE” ARTIGIANA È AREZZO, SEGUITA DA ASCOLI PICENO E PRATO, CHE TESTIMONIANO LA CONSOLIDATA PRESENZA IN TOSCANA E MARCHE DI UN SETTORE CHE PARTECIPA IN MODO MARCATO ALLA FORMAZIONE DEL MADE IN ITALY |
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Roma, 2 marzo 2005 – L’istituto Tagliacarne, tradizionalmente impegnato nella produzione di dati e indicatori statistici territoriali, fornisce con questa ricerca un insieme di dati articolato sul valore aggiunto e sull’occupazione del settore artigiano. Queste serie statistiche colmano una esigenza informativa su un settore che contribuisce in modo consistente allo sviluppo dell’economia del Paese e dei suoi territori. Procedendo in coerenza con le valutazioni dei conti economici nazionali e territoriali predisposte dall’Istat, vengono in particolare rese disponibili le stime del valore aggiunto ai prezzi base e dell’occupazione delle imprese artigiane nel periodo 1995-2002, classificate in comparti omogenei e con riferimento alle singole province in cui si articola il territorio nazionale. Con un valore aggiunto pari al 2002 a 145,5 miliardi di euro, il settore artigiano contribuisce alla formazione della produzione dell’intera economia nazionale per il 12,4%, quota che, nel caso dell’occupazione (complessivamente pari a 3 milioni 542 mila unità) raggiunge un livello pari a 14,8%. L’artigianato si qualifica quindi come un settore chiave dell’economia italiana, nell’ambito del quale si sperimentano lo spirito di iniziativa e di inventiva di un numero ragguardevole di occupati. Se da un lato si verifica che il valore aggiunto dell’artigianato proviene per il 64,9% dall’industria (articolato in un 42,2% imputabile alla componente manifatturiera e 22,8% alle costruzioni) e per il 35,1% dai servizi, il ruolo del comparto risulta notevolmente diversificato a seconda delle attività che si considerano. All’interno delle costruzioni le quote di spettanza delle imprese artigiane toccano rispettivamente il 57% per il valore aggiunto e il 55,2% per l’occupazione, mentre per le attività industriali in senso stretto le stesse si collocano attorno al 30% per quanto riguarda l’occupazione, assestandosi su un più contenuto 23,3% in termini di valore aggiunto. Molto più ridotto appare invece il peso delle imprese in questione nell’ambito del terziario, costituito da un insieme di attività piuttosto eterogenee. La scarsa incidenza che ne risulta (6% per il valore aggiunto e 6,5% per l’occupazione) è da mettersi in connessione, da una parte, con la dimensione relativamente elevata di alcune attività (come il commercio all’ingrosso, l’intermediazione finanziaria, ecc.) nelle quali le imprese artigiane trovano poche possibilità di inserimento; dall’altra, con la massiccia presenza di altre attività (agricoltura, Pa, ecc.) che non vengono esercitate in forma artigianale. La disponibilità di dati in serie storica consente di evidenziare i differenziali di sviluppo che intercorrono tra l’artigianato e il resto dell’economia nazionale. Lo slittamento a favore del primo, di cui viene registrata una più soddisfacente performance, emerge soprattutto dall’andamento dell’occupazione, che fra il 1995 e il 2002 registra un surplus di oltre 360 mila unità, con un incremento (11,5%) relativamente più elevato rispetto al totale nazionale (8,5%). Ne è conseguita, pertanto, una lieve dilatazione dell’aliquota detenuta dal settore, che fra i due anni estremi del periodo è passata dal 14,4% al già citato 14,8%. A livello di macroaree le attività artigiane assumono un rilievo particolarmente significativo nella ripartizione nord-orientale. Sulla base infatti del peso che le attività in questione assumono sul totale dell’economia e soffermandosi sul valore aggiunto (media nazionale pari a 12,4%), il ranking che ne consegue vede in testa il Nord-est (15,6%), seguito rispettivamente dal Nord-ovest (12,3%), dal Centro (11,2%) e dal Mezzogiorno (10,6%). Passando in esame i dati regionali, la realtà “più artigiana” sono le Marche (quota di valore aggiunto pari al 18,4%, che raggiunge il 21,7% per l’occupazione), alla quale fanno seguito, restringendo l’analisi ai dati di valore aggiunto, l’Umbria (16,7%), il Veneto (16,6%), l’Emilia Romagna (15,8%) e la Toscana (15,4%), tutte regioni in cui la componente manifatturiera del settore si attesta su un 45%-50% del valore aggiunto complessivo. E’ da rilevare che se il Nord-est è rappresentato in questa top five da Veneto ed Emilia Romagna, il Centro Italia colloca nella stessa ben tre delle sue quattro regioni (inclusa la capolista): è dunque il Lazio, verosimilmente in ragione della propria marcata vocazione terziaria, ad abbassare la media di ripartizione. Con l’analisi dei dati provinciali si scende ancor più nel dettaglio, “sgranando” ulteriormente l’istantanea colta dai dati regionali ed evidenziando elementi di peculiarità. Dalla graduatoria nazionale stilata in base al peso del valore aggiunto si rileva che la provincia a maggior “vocazione” artigiana è Arezzo (in cui il contributo dell’artigianato alla formazione del reddito è pari al 22%), seguita da Ascoli Piceno e Prato che, sempre con valori superiori al 20%, testimoniano la consolidata presenza in Toscana e Marche di un settore che partecipa in modo accentuato alla formazione del Made in Italy. Nell’ambito di queste due realtà regionali spiccano anche Pesaro-urbino e Macerata (che si collocano rispettivamente al quarto e quinto posto della graduatoria con una quota pari al 19,8%) e Pistoia (settima con il 19%), da cui si deduce che nelle prime sette posizioni di questa graduatoria ben sei sono marchigiane o toscane. Nelle posizioni di vertice di questa classifica si inserisce Vicenza (sesta con il 19,3%) mentre per trovare la prima provincia del Nord-ovest si deve scendere al nono posto (Asti, 18,1%). La provincia di Ragusa è la prima provincia artigiana del Mezzogiorno, collocandosi al 18° posto, con una quota di valore aggiunto prodotto dal settore artigiano pari a 16,9%. L’ultima posizione di questa particolare graduatoria è occupata dalla provincia di Roma (4,6%), alla quale si aggiungono al penultimo e terzultimo posto, altre due grandi realtà del Paese quali Napoli (5,2%) e Milano (7,7%); altre province di dimensione economico-demografica ugualmente elevata si collocano nella parte bassa della classifica, come Palermo (98° posizione), Genova (83°) e Torino (75°). Sulla base di queste ultime considerazioni si coglie una relazione tra densità dell’artigianato e dimensione dei territori, ulteriormente confortata da una analisi per fasce di province in base all’ampiezza demografica (“grandi”, “medie” e “piccole” suddividendo le 103 province in tre gruppi in ordine di grandezza ciascuno pari ad un terzo del totale). A fronte dei valori complessivi (12,4% per il valore aggiunto e 14,8% per gli occupati), la quota relativa all’artigianato è più bassa nelle province di grande dimensione (11,2% per il reddito prodotto e 13,5% per l’occupazione), mentre è più elevata nelle piccole (14,4% e 17,1%) e soprattutto nelle realtà intermedie (14,9% e 17,4%).
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