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Notiziario Marketpress di Lunedì 25 Ottobre 2004
 
   
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  RADIO 1 RAI: ALBERTO BEVILACQUA AL COMUNICATTIVO DI IGOR RIGHETTI: “LA MORTE DI MORSELLI, IN QUESTI CASI L’EDITORIA È QUALCOSA DI ORRENDO”  
   
   Roma, 25 ottobre 2004 - Lo scrittore racconta in anteprima il suo nuovo libro che uscirà il 26 ottobre “Tu che mi ascolti” dedicato alla madre: “Mentre io ero ragazzino e giovane lei era nelle cliniche per depressione” Ecco un estratto dell’intervista. Come definisce se stesso Alberto Bevilacqua? Una volta, con ironia, scrissi un epitaffio per la mia futura tomba ed è molto breve, “nacque, non nocque”. Una persona lineare, credo di non essere un ipocrita e in questo mondo, oggi, mi pare una definizione più che esauriente. Il 26 ottobre uscirà il suo nuovo libro “Tu che mi ascolti”. Di che cosa parla? Mia madre è morta nell’agosto dell’anno scorso. Per me è stata un punto fondamentale e anche un’interprete di tanti miei libri, di tante mie poesie. Ho avuto un trauma così atroce, dopo aver cercato di difenderne la vita in tutti modi, che non mi è rimasto che un mezzo, la mia penna. Ho scritto un libro dedicato a lei: la prima parte è una registrazione della nostra vita. È stata dura perché mentre io ero ragazzino e giovane lei era nelle cliniche per depressione; è uscita dalla depressione che era già avanti negli anni e anch’io e abbiamo vissuto l’unica parte bella della nostra vita fingendo di essere io un ragazzino e lei un madre giovane quando, in realtà eravamo degli adulti. Nella seconda parte, devo dire per me la più importante, riesco a comunicare con mia madre, e non parlo di suggestione o di delirio, dopo che lei è scomparsa. Tutte le teorie che io posso aver assimilato nei miei studi di cosmologia, di astrologia, scopro che sono vere: se non ci concentriamo sull’energia che ci sta dentro e che, indubbiamente, è stata plasmata da chi ci ha creato non riusciamo a parlare con chi non c’è più. Ecco questa mi sembra una grossa conquista di questo libro che si intitola, appunto, “Tu che mi ascolti”, perché lei mi ascolta. La passione per l’infinito, per l’ignoto è precedente o conseguente dei suoi studi astrofisici? Io sono nato in una comunità legata molto a un’altra comunità sul Po, le città emiliane come Parma, Modena, Reggio non sono di terra perché a dieci chilometri c’è il fiume, che si chiama Leggera e quindi una comunità che si forma con il Parmigianino, con il Petrarca, che nessuno ce lo dice ma veniva lì a fare l’alchimista, il veggente, e lo stesso Dante, anche lui veniva lì. Quindi un luogo intriso di magia e di interpretazione delle costellazioni. Vorrei citare una cosa per dimostrare l’importanza di questa comunità: una volta portai lassù Gabriel Garcia Marquèz, che studiava qui a Roma al Centro sperimentale di cinematografia, a vedere gli ultimi cerchi usati da questa comunità per irradiare nel mondo i loro programmi. Ho trovato simboli uguali anche nei miei soggiorni tibetani. E Garcia Marquèz ebbe la prima idea di “Cent’anni di solitudine” con il cerchio di Melquiadès, quindi sono stato nutrito da queste vocazioni fin da ragazzino. Crede al destino? Credo che ci sia una mente veggente nell’energia minima, cioè quella che adesso abbiamo scoperto essere quella che sopravvive, che si fa beffe di noi, positive e negative. Il suo rapporto con le donne? Ho imparato a conoscere la vita attraverso le donne. Mia nonna aveva avuto sedici figli di cui quattordici erano donne. Sono nato in un uccelliera di donne e di zie e quindi ho imparato subito com’è la vita delle donne. Devo anche dire che, abitando a Parma, mio padre che era un aviatore, una persona perfetta naturalmente al servizio di Balbo che era maresciallo dell’aria. Quando mio padre fu epurato ci tolsero tutto e finimmo in una catapecchia tra due case di tolleranza. A quattrodici anni, siccome ero un bambino solo in quanto mia madre era malata e mio padre era travolto dagli eventi, ricevetti l’invito ad andare a mangiare una pasta calda lì da una di queste donne. E io entrai e a quattordici anni scoprii la sessualità più avanzata e più travolgente. Il mio rapporto con le donne è sempre stato controverso, basato su una grossa spinta sessuale, da una parte, e, dall’altra, dalla voglia e dal desiderio, spesso deluso, che una donna sia coerente e in grado di dare dolcezze profonde. Cosa che accade sempre meno. Pasolini vide giusto quando leggendo le mie poesie disse che io avevo, internamente, un irrelato fantasma idillico. Cioè aspettavo la donna che potesse avere per me una carezza sulla testa. Questo non avviene sempre e quando non accade entro in una sfera quasi misogina. Si ritiene soddisfatto di quello che ha avuto dalla vita? No, assolutamente no. Credo, anzi, di essere stato assolutamente penalizzato. Il suo rapporto con Dio? Gli studi che ho fatto e anche l’iniziazione esistenziale che ho avuto attraverso i personaggi della Leggera, mia nonna, mia madre, hanno molto influito su di me. So che c’è un’entità, un’energia che ha una voglia di creare immensa, smisurata che crea, crea e ancora crea e che è Dio. Ora non dobbiamo dare a Dio delle forme antropomorfiche, ma Dio c’è, Dio è un’energia che non possiamo nemmeno immaginare nella sua vastità, che sta lassù, oltre la nube del nulla, e che provvede ai nostri destini. Questo è un dato scientifico e, naturalmente, va trasformato in un atto di fede generalizzata. La fede nel fatto che esiste un’entità e che è energia pura. Che cos’è che la fa ridere? Abbiamo in Emilia, a Parma e dintorni una parola che è “cirlin”, è il riso che nasce senza una ragione, tra ragazzini per esempio, ed è come le ciliegie, una tira l’altra. Si comincia a ridere per niente e poi alla fine ci si accorge di ridere e allora si trova la ragione per ridere, ma alla fine. Creare è fatica o gioia? Creare una poesia deve essere gioia, creare un romanzo, cioè una lunga narrazione, è gioia e fatica tremenda perché la prima stesura è una gioia. Io scrivo un finale, una riga sulla parte centrale, un incipit e provo gioia. Poi si tratta di dare un’armonia al tutto e qui entra una fatica a volte insostenibile. Ma questo credo sia di ogni creatore anche musicale, anche un pittore. Che cos’è che più la indigna? La volgarità con cui gli altri, quelli che raggiungono il cosiddetto potere, potere pratico, sia in veste politica sia sociale, umiliano e ingannano le persone. Mi indigna il dittatore. Il dittatore andrebbe sempre ucciso. Si è mai autocensurato nei suoi scritti? No, non credo, solo una volta, sul titolo di un mio libro che io volevo fosse “Anima carnale” e tutti mi dicevano non devi mettere questo titolo. Mi sono censurato, ho messo “Anima amante” e ho sbagliato. Perché ha sbagliato? Ho sbagliato perché non rappresentava il libro. Il libro era l’anima carnale e cioè quell’anima profonda, cristiana ripeto, che hanno i sensi. Però mi sono riscattato con un altro titolo di un mio libro che, trattando di depressione e di oriente, di sistemi nuovi e possibili che possono essere prestati alla psicanalisi occidentale, chiamai “I sensi incantati”. In un suo scritto lei dice che l’editoria è simulazione e mistificazione. Da che cosa scaturiscono queste affermazioni? Ma io non ricordo di averlo detto però, tutto sommato, può darsi benissimo. Trovo tutto io… Probabilmente l’ho detto quando ho visto certe case editrici, anche importanti, essere un caveau per persone che volevano raggiungere il potere e negavano una pubblicazione a persone che lo meritavano e pubblicavano libri che non valevano nulla. Mi ricordo il caso di Morselli, uno scrittore straordinario che riceveva continuamente dei no, e più di una volta nella casa editrice in cui io ero allora dicevo: “Guardate che procurate la morte di questo scrittore”. E infatti si uccise, si sparò. Ecco, in questi casi l’editoria è qualcosa di orrendo. Da giornalista ritiene che oggi l’informazione sia adeguata? Si è adeguata perché la concorrenza con il visivo è molto forte e quindi si richiede al giornalista una possibilità di farsi ascoltare molto maggiore. Quando io, per esempio, per la prima volta fui mandato inviato in guerra, avevo ventidue anni ed era la guerra dell’ex Congo belga, non avevamo questa concorrenza così tremenda della televisione, una concorrenza anche importante a questo riguardo. Dovevamo noi trovare un telefono in mezzo a un campo di morti, di armi, di mercenari, per comunicare ciò che era accaduto. Era anche più facile oggi bisogna, invece, comunicare certe verità assolutamente strazianti in concomitanza col visivo. Però c’è un aspetto che è quello dei segreti di stato; lì noi non siamo adeguati giornalisticamente anche perché chi denuncia certe cose la paga anche col rischio della vita. Io mi ricorderò sempre quando sono stato mandato dal direttore di Panorama sui luoghi dei delitti del mostro di Firenze, scoprendo poi, nel giro di una settimana, che era impossibile che un uomo facesse tutto da solo: individuare i due amanti, aprire la portiera, sparare con una pistola, tirare fuori i cadaveri, infierire su di loro, non solo sul corpo della poveretta che veniva ammazzata ma anche sul ragazzo c’era il segno di una rosa rossa che è segno di diabolica convivenza da parte di gruppi che fanno riti sull’orrore. Su questo piano, di cose che io ho combattuto finché ho dovuto dichiararmi proprio per salvarmi la pelle, siamo inadeguati. Ho molto combattuto la pedofilia e mi davano contro, ho molto combattuto i riti neri che sono arrivati nelle mani di ragazzi che hanno fatto delle cose orrende e anche lì mi davano del visionario. Lì noi manchiamo, su quelle interconnessioni in cui entra nei segreti orrendi di questa nazione dell’Europa. C’è spazio per la poesia nell’era di Internet? Lei tocca un problema molto importante, innanzitutto io vorrei che Internet si offrisse anche alla poesia perché è un mezzo per farla. Internet non può prescindere dalle parole, la poesia è fatta di parole che comunicano una commozione, se non la comunicano non si tratta di poesia. Internet dovrebbe, addirittura, ubriacarsi, delirare di poesia, perché è l’unico mezzo per darsi un’anima in più. Che cosa si augura Bevilacqua per il suo futuro? Per il mio futuro mi auguro di poter aiutare le persone che soffrono perché non riescono a esprimersi; per me, devo dire, non mi propongo più nulla, vado avanti, mi sento in forma, dal punto di vista delle energie corporali mi sento a posto, la mia testa funziona, non faccio più programmi per me. Le persone che nella vita mi hanno dato anche poco, anche un dito, io cerco di ricambiarle. Di quali sentimenti è più geloso? Della lealtà. La lealtà è un atteggiamento, un sentimento che ormai viene messo sotto i piedi. Un tempo si fingevano i sentimenti di altra natura, l’amore, l’odio, la lealtà non si fingeva o si era leali oppure no. Adesso i mascalzoni al potere o anche nella vita di tutti i giorni riescono a fingere la lealtà. Non c’è niente di più atroce dello scoprire che una donna che si credeva leale invece è una traditrice. Bevilacqua, quale domanda avrebbe voluto che le facessi? Le domande che mi ha fatto sono quelle che, credo, vanno al fondo del nostro essere. Forse una è “hai paura di morire?”. Sì, ce l’ho. Ce l’ho perché è un trapasso terribile e questa paura c’è ma si tramuta in un imperativo adesso che sono arrivato abbastanza in là negli anni, non molti ma sono abbastanza in là, ogni giorno lo vivo come fosse l’ultimo.  
     
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