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Notiziario Marketpress di
Mercoledì 17 Marzo 2004
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AL TEATRO SAN BABILA DAL 23 MARZO ALL’ 11 APRILE VALERIA MORICONI E MASSIMO DE FRANCOVICH IN GIN GAME DI D.L. COBURN |
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Milano, 17 marzo 2004 - Il sipario di “Gin Game” si apre su Villa Bentley, uno squallido ospizio per persone anziane, e l’azione si svolge per tre quarti nei pomeriggi di tre domeniche consecutive. I protagonisti, Weller e Fonsia, non ricevono mai una visita nelle loro lunghe, annoiate e sconsolate domeniche. Di lei sappiamo che ha un figlio quarantacinquenne e un nipote sedicenne e che soffre di diabete cronico; di lui che è lì da molto tempo e che non è al suo primo ospizio. Le giornate interminabili, l’uomo le riempie con lunghi solitari: buon per lui, gli pare, che la nuova venuta – persona garbata e disponibile alla conversazione - si rivela una compagnia ideale per apprendere a giocare a carte il gioco del “Gin” . Le movenze da garbata “situation comedy” precipitano mano a mano in un dialogo sempre più violento, dove i due protagonisti smettono d’illudersi a vicenda e, crudelmente, si strappano l’un dall’altro di dosso tutto l’ipocrita perbenismo, dietro al quale si erano nascosti, ammantati in un “costume teatrale” di rispettabilità piccolo borghese. Dietro al gioco, si nasconde una tematica e situazione tremendamente seria: il ripensamento di due esistenze completamente fallimentari e il patetico rifiuto alla rassegnazione nell’ultima stagione della vita consumata in questo episodio chiamato Villa Bentley. Questa commedia di Coburn, vincitrice di un premio Pulitzer, racconta in quattro quadri la partita per la vita di Fonsia e Weller, due anziani ospiti di una casa di riposo convenzionata. Fonsia è una piccolo borghese solida, una metodista protestante, Weller un agente di commercio. Due personaggi qualsiasi esemplari di tanti altri pensionati con una vita di sacrifici e qualche sconfitta esistenziale alle spalle. Si conoscono qui entrambi alla ricerca di qualcosa che possa sconfiggere la loro solitudine. All’inizio diffidano l’uno dell’altro, poi, complice il gioco delle carte, si sciolgono progressivamente. Ma il gioco ha per loro significati completamente diversi. Per Fonsia è un passatempo come un altro, un’occasione per scambiare qualche parola, mentre per Weller rappresenta l’ultima possibilità di dimostrare al mondo che lui conta qualcosa, di non essere un perdente assoluto. Ecco che le mani di gin diventano altrettante tappe di un gioco della vita e il linguaggio del gioco si fa spaccato e specchio deformante del linguaggio della vita. Le mani del gioco sono talvolta tragicomiche, talvolta furbe, talvolta disperate e i due progressivamente mostrano il loro carattere la loro indisponibilità a sentirsi tagliati fuori dalla società sempre più feroce contro chi non rappresenta più un “utile” o una possibilità di profitto. Delusioni, gioie, frustrazioni, cattiverie e lucide invettive compongono un mosaico poliedrico che rispecchia la complessità dell’esistenza. Nessun altro entra nel loro gioco come nessun altro entra nella loro vita. Regressioni e crudeltà reciproche ma anche scherzi infantili e senili, autoironia, sarcasmo e anche, perché no, una punta di patetismo. L’autore usa tutte le regole della scrittura teatrale e come i bravi autori americani vuole commuoverci e far sorridere rifuggendo da intellettualismi e non si vergogna di svelare l’incredibile complessità dei rapporti di questi due esseri umani per nulla disposti a sentirsi sulla ultima spiaggia. Testo impossibile da rappresentare senza due grandi attori capaci di mettersi a nudo e di usare tutte le regole della comunicazione teatrale che per questa edizione sono Valeria Moriconi e Massimo De Francovich con una grande disponibilità e autoironia. Piero Maccarinelli Valeria Moriconi In perenne altalena tra passione e disincanto, tensione drammatica e sorriso mistificatorio, Valeria Morioni può rivendicare una paradossale coerenza dell’incoerenza non già suggerita da incertezze di scelte, bensì dettata dal gusto esasperato della sfida, dal bisogno costante del confronto, dalla voluttà di sempre nuovi traguardi. Da metà degli anni Cinquanta ad oggi, forse nessun’altra attrice italiana s’è lasciata altrettanto tentare dagli autori più disparati, dai generi più distanti, dai ruoli più controversi, a costo talvolta di scelte opinabili, mai però rinnegate, anzi caparbiamente difese con gli slanci di un temperamento generoso. Ad aprirle la strada del palcoscenico fu nientemeno che Eduardo De Filippo che l’aveva casualmente vista in un film e la volle per il ruolo di attrice giovane nel suo “De Pretore Vincenzo”. L’ esperienza con De Filippo segnò per sempre la giovanissima Valeria Abbruzzetti, andata in sposa a soli diciassette anni con l’industriale-pittore Aldo Morioni, con cui si trasferì a Roma. Con la scuola di Luchino Visconti, Valeria si plasmò definitivamente come artista prima dell’incontro decisivo, a livello artistico e umano, con Franco Enriquez e la compagnia dei Quattro. Quando il solidario con Franco si interruppe, Valeria si tuffò nella fatica quotidiana di prove estenuanti, del progressivo possesso di sempre nuovi personaggi. Lavora con Massimo Castri, Giancarlo Corbelli, Maurizio Scaparro, Aldo Trionfo e Luca Ronconi. Nonostante anni di attiva partecipazione, nel periodo pionieristico della televisione, Valeria Morioni non ha mai nascosto la sua univoca passione, pertanto le viene conferito il premio fedeltà al teatro, che perpetua il nome del critico-principe Renato Simoni, il 4 luglio 1992. Massimo De Francovich Si diploma nel 1957all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma e partecipa, come attore giovane, con Vittorio Gassman, in “Ornifle” di Anouilh e in “I Tromboni” di Federico Zardi, sempre con Gassman. Nel 1961, prende parte a “I due gentiluomini di Verona” di Shakespeare, con Luca Ronconi, Ilaria Occhini, per la regia di Beppe Menegatti. Nel 1964 ricopre il ruolo di Orazio in “Amleto” per la regia di Franco Zeffirelli. Nel 1965 è con la compagnia Franca Valeri-vittorio Caprioli. Nel 1966 è con Franco Parenti al Teatro Stabile di Torino in “Il mondo è quello che è” di Alberto Moravia, regia di Gianfranco De Bosio. Dal 1970 al 1975, è al fianco di Tino Buazzelli in “Sei personaggi in cerca d’autore”, “Morte di un commesso viaggiatore”, “ La rigenerazione” e altri spettacoli. Nel 1976 fonda la cooperativa “Società d’arte teatrale” e fino al 1979 vi recita e mette in scena “Le cugine”, testo incompiuto di Svevo che De Francovich rielabora e termina con materiale dell’autore. E’ per due anni al fianco di Valeria Morioni con la quale interpreta Domenico Soriano in “Filumena Marturano” di Eduardo De Filippo; lo spettacolo raggiunge 350 repliche. Sempre con la Moriconi, è Antonio in “Antonio e Cleopatra”, per la regia di Giancarlo Corbelli. Nel 1989 inizia al Teatro Stabile di Torino, la collaborazione con Luca Ronconi, proseguita poi al Teatro di Roma. Fra i titoli più significativi recitati con la regia di Ronconi, sono “Strano interludio”, “Gli ultimi giorni dell’umanità”, “Re Lear”. Nella sua lunga carriera, Massimo De Francovich ha ricevuto numerosi premi, fra i quali: 1990 - Premio Armando Curcio per il teatro; 1991 – Premio Ubu come migliore attore dell’anno; 1991 – Premio “Le Fenici” per il teatro con Strelher, Ronconi e Pozzi; 1993 – Premio Paolo Stoppa per Re Lear; 1994 – Premio Internazionale Ennio Flaian; 1996 – Sacher D’oro di Nanni Moretti per migliore attore non protagonista in “Pisolini un delitto italiano” di Marco Tullio Giordana; 2000 – Premio Salvo Randone per il teatro.
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