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Notiziario Marketpress di Lunedì 30 Maggio 2005
 
   
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  LA MOBILITÀ DEI “CERVELLI” SOTTO LA LENTE DELL’EUROPA  
   
  Roma, 30 maggio 2005 - “Quest’iniziativa rappresenta il primo tentativo della Commissione Europea di tradurre in cifre il fenomeno della mobilità intellettuale europea, in una situazione di totale assenza di dati ufficiali, che invece gli Usa hanno a disposizione” spiegano Maria Carolina Brandi e Sveva Avveduto dell’Istituto di ricerca sulla popolazione e le politiche sociali (Irpps) del Consiglio nazionale delle Ricerche, curatrici per l’Italia del progetto Brain Drain - Migration Flows of Qualified Scientists, i cui risultati sono stati pubblicati nel numero speciale della rivista “Studi Emigrazione” con il titolo “Le migrazioni qualificate tra mobilità e Brain Drain”, presentato questa mattina al Cnr. Il progetto, conclusosi nel 2004 e al quale hanno partecipato anche il Merit dell’Università di Maastricht e l’Iku dell’Università di Budapest parte dalla “necessità di istituire anche per l’Europa una banca dati per monitorare il fenomeno della fuga dei cervelli”, spiegano le ricercatrici. C’è da evidenziare però, in proposito, una novità. L’unione Europea, tramite la Direzione Generale di ricerca di Bruxelles, ha attivato un programma di monitoraggio dei flussi di mobilità dei propri ricercatori – lo “Human resources in research and developement monitoring system on career paths and mobility flows” – al quale partecipano Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Norvegia, Svezia, Repubblica Ceca e Polonia. Per l’Italia, l’ente interessato è il Cnr. Ma qual è il quadro delle migrazioni qualificate e del ‘brain drain’ in Europa verso Stati Uniti e Canada? Ecco alcuni dati emersi sulla mobilità. “Tra i 15.000 Phd di nazionalità europea che hanno acquisito il titolo negli Usa tra il 1999 ed il 2001, circa 11.000 dichiarano di non aver intenzione di far ritorno in Europa. I ricercatori europei che lasciano il proprio paese non sono soltanto quelli che hanno già acquisito una vasta esperienza ma, al contrario, l’incidenza di giovani ricercatori che decidono di restare nel paese di immigrazione si fa sempre più alta”. Dal progetto si evince che in assenza di iniziative adeguate per arginare il fenomeno, il ‘Vecchio Continente’ si ritroverebbe, nel giro di dieci anni, depauperato di ‘conoscenze’. “Per quanto riguarda gli occupati in professioni scientifiche, anche se l’incidenza degli europei negli Usa non supera il 2%, i numeri assoluti sono consistenti. I lavoratori ad altissima qualificazione (con visto H1b) provenienti dall’Europa ed immigrati negli Usa nel 2003 erano oltre 100.000; tra i cinque paesi che forniscono questo capitale umano, l’Italia occupa il quarto posto con 5.900 persone, dopo Regno Unito (31.000 persone), Francia (15.000), Germania (13.000), e prima della Spagna (5.800). Nel 2004 il personale qualificato proveniente da tutti i paesi del mondo che ha ottenuto il visto H1b aumenta ancora rispetto al 2003: si passa da 360.000 a 387.000 visti. Dal 1998 al 2003, ogni anno, in media circa 5.000 italiani altamente qualificati nella ricerca e nelle professioni tecniche trovano occupazione negli Usa per un periodo che può durare fino a 6 anni. Nel solo 2003 il 17% degli italiani che si sono stabiliti in maniera permanente negli Usa sono manager, dirigenti e professionisti”. Ma quali sono le ragioni principali delle migrazioni e le cause che determinano il ritorno in patria? Lo hanno svelato, nell’ambito del Progetto, due indagini, di cui una condotta dal Cnr su un campione di 250 ricercatori stranieri presenti negli Enti pubblici di ricerca italiani e, l’altra, dal Merit su un campione di 1000 ricercatori europei ed americani dell’American Association for the Advancement of Science (Aaas) che conta 250.000 iscritti. Dagli studi si deduce che gli europei vanno in Usa non solo per svolgere una ricerca migliore, ma anche per avere più opportunità di lavoro, carriera, e finanziamenti più alti: tra le loro motivazioni, la possibilità di fare carriera prevale con il 78%, seguita dal prestigio dell’istituzione che li ospita con il 74,6%, dalle possibilità di accesso alle tecnologie di punta (73%), dai maggiori fondi disponibili per la ricerca (69%), dalle opportunità di contatto con le reti di ricercatori e professionisti (68%). In coda alla graduatoria delle motivazioni, la mera opportunità occupazionale, che conta per il 56%, e i miglioramenti retributivi (54%). Molto diversa la spinta degli studiosi statunitensi a lasciare il loro paese: il prestigio dell’ente destinatario prevale con il 61%, seguito dalle condizioni di vita del paese ospitante (60%). Speculari le motivazioni che portano al rientro in patria: prevalgono per i ricercatori europei le condizioni di vita del paese di origine (80%) e il desiderio di ricongiungersi alla famiglia (71%). Per i colleghi americani il rientro in patria è motivato soprattutto da ambizioni di carriera (71%), dai miglioramenti salariali (63%) e dall’esigenza di maggiori fondi per la propria attività (61%). E’da sottolineare che i singoli Paesi europei hanno adottato alcune normative per incentivare non solo il rientro dei loro ricercatori, ma anche l’arrivo di studiosi stranieri. Per esempio, nel Regno Unito, dalla fine degli anni ’90, il sistema di concessione dei permessi di soggiorno ha consentito di reclutare personale straniero qualificato, in particolare in ambito medico. La Germania ha introdotto la cosiddetta ‘green card’ per facilitare il reclutamento di lavoratori e ricercatori specializzati nelle tecnologie dell’informazione, arrivando – secondo un sondaggio condotto su 340 imprese - ad una percentuale di stranieri ad altissima qualificazione (top management) del 9%. Negli ultimi anni, l’Italia ha predisposto strumenti e provvedimenti - il più recente è il Decreto del Miur del 1 febbraio 2005 sul “rientro dei cervelli” - per il rientro dei ricercatori italiani all’estero e l’arrivo di studiosi stranieri, nell’ottica di una sempre maggiore internazionalizzazione del nostro sistema ricerca. “L’indagine” concludono Brandi e Avveduto “ha dimostrato che è necessario fare una distinzione tra mobilità internazionale e ‘fuga dei cervelli’. La prima è spinta prevalentemente dalla competizione per l’eccellenza scientifica tra diverse istituzioni, mentre il ‘brain drain’ è sostanzialmente generato dalla mancanza di opportunità e di risorse in patria”.  
     
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