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Notiziario Marketpress di Lunedì 04 Luglio 2005
 
   
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  MARIA WEBER CONTROCORRENTE: AI CINESI DOVREMO VENDERE LE NOSTRE AZIENDE L'ITALIA HA ACCUMULATO UN RITARDO INCOLMABILE NELLA PENETRAZIONE DEL MERCATO ASIATICO E NEGLI INVESTIMENTI DIRETTI. LA VERA OPPORTUNITÀ È FARE IN MODO CHE SIANO I CINESI A INVESTIRE IN IMPRESE ITALIANE DAI MARCHI FAMOSI  
   
  Milano, 4 luglio 2005 - Per le imprese italiane le difficoltà di mercato sono ormai superiori ai vantaggi che potrebbero trarre dalla presenza in Cina. Tutti i maggiori concorrenti sono presenti da tempo e le dimensioni medie delle aziende italiane sono troppo piccole per sopportare gli investimenti necessari. Maria Weber, la scienziata politica italiana più vicina alla realtà cinese, lancia una forte provocazione: a questo punto il sistema Italia deve abbandonare le velleità di espansione e cercare di attrarre investimenti cinesi, convincendoli ad acquisire imprese in difficoltà, ma dai marchi riconoscibili in tutto il mondo. Domanda. Ma la Cina non è il mercato del futuro, quello con più di un miliardo di persone pronte a consumare come e più degli occidentali? Risposta. La Cina rimane una grande opportunità, ma solo per qualcuno. Il prossimo anno pubblicherò un libro intitolato La Cina non è per tutti perché si deve prendere atto che noi italiani abbiamo perso troppi treni. I nostri investimenti diretti sono scarsi (per leggere i dati Ice, clicca qui) e dispersi in troppe piccole iniziative. Imprese da 50 addetti faticano a sopportare i costi della presenza in Cina, senza un sistema che li sostenga. Sono scettica persino per il turismo, perché non abbiamo una ricettività di massa, con le strutture in grado di ricevere 2-3.000 persone per volta che servirebbero per i cinesi. Rischiamo di essere scavalcati dalla Spagna. Domanda. Che cosa possiamo fare, allora? Risposta. Non possiamo e non dobbiamo chiuderci in difesa. Le posizioni protezionistiche sono anacronistiche e danneggiano la nostra immagine. Analizzando la politica cinese, come ho fatto in Il dragone e l’aquila, si vede come sia centrale la cosiddetta Go global policy, che promuove lo sviluppo delle quote di mercato estere delle multinazionali cinesi, anche a colpi di acquisizioni. Per non essere costretti a partire da zero nella penetrazione di mercati maturi, i cinesi preferiscono acquisire marchi conosciuti, anche se attraversano momenti difficili, come ha fatto Lenovo con la divisione personal computer di Ibm. Domanda. L’italia che cosa può offrire da questo punto di vista? Risposta. Poco, purtroppo, nei settori ad alta tecnologia, che sono i preferiti dai cinesi. Abbiamo invece molti marchi di alto design in crisi, ma ancora appetibili per il loro nome. Si tratta di farlo capire a noi italiani, prima ancora che ai cinesi. Anche per raggiungere un obiettivo minimale come questo dovremmo infatti imparare dai cinesi la progettualità e la capacità di concludere le cose rapidamente. Se sapremo muoverci in modo coordinato ed efficace i cinesi se ne accorgeranno e vaglieranno la possibilità. Domanda. Ma dove abbiamo sbagliato nella campagna di Cina? Risposta. A differenza di quanto hanno fatto gli altri, da parte nostra non c’è stata nessuna campagna coordinata. In Cina ho incontrato decine di piccoli imprenditori arrivati con il loro campionario, senza supporti istituzionali. I loro prodotti vengono plagiati perché, forse a causa dei costi, stentano a brevettarli secondo le regole cinesi. Hanno difficoltà con l’inglese e arrivano in un paese difficile da affrontare anche per chi lo parla. Non riescono a raccogliere elementi di giudizio sufficienti nella scelta dei partner e, soprattutto, raramente dimostrano un serio impegno di lungo periodo. Non si può creare una joint venture e poi lasciarla completamente nelle mani del partner locale perché ci si rende conto di averne sottostimato i costi, soprattutto in termini di risorse umane.  
     
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