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Notiziario Marketpress di Mercoledì 18 Gennaio 2012
 
   
  FEDERALIMENTARE: LA TASSA SUI JUNK FOOD? E’ INEFFICACE E CONTROPRODUCENTE

 
   
  Roma - La ipotizzata tassa su bevande alcoliche e i cosiddetti junk foods continua a suscitare interesse. È un dibattito che mette insieme il punto di vista di chi il cibo lo produce, ogni giorno, e degli esperti che devono stabilire cosa è giusto mangiare e non mangiare e in che modo si costruisce uno stile di vita sano. Cominciamo da un nutrizionista che da anni si occupa di raccontare agli italiani quali sono i comportamenti alimentari giusti e quali invece sono da evitare. Andrea Ghiselli, Dirigente di ricerca e Responsabile dell’ufficio comunicazione Inran, guarda all’ipotesi di tassazione senza alcun entusiasmo. “Non entro nel merito politico-economico di una tassazione del cibo perché esula dalle mie competenze, ma non si faccia in nome di un miglioramento dell´alimentazione degli italiani perché non ha senso. Sono sempre scarse le risorse che abbiamo a disposizione per la prevenzione e la corretta educazione alimentare, ma una tassa discriminatoria potrebbe aumentare la confusione, oltre ad essere regressiva. Non è corretto infatti classificare gli alimenti in buoni e cattivi, cibi sì e cibi no ed è cattiva educazione alimentare. Come facciamo inoltre a definire il junk food? Alimenti troppo ricchi di grasso? Di calorie? Di zucchero? Di sale? Allora è junk food tanta parte del patrimonio alimentare italiano, dall´olio di oliva, al parmigiano, al prosciutto crudo. Terzo ma non ultimo: il consumo di prodotti comunemente considerati junk food, come merendine e bevande carbonate, rappresenta oggi una piccola parte dell´apporto calorico della popolazione italiana, ma si vorrebbero additare come responsabili dell´eccedenza ponderale”. Intenzioni lodevoli, dunque, ma totalmente sbagliata la strategia, secondo Ghiselli: “Dobbiamo invece educare il consumatore ad adeguare la propria alimentazione al proprio fabbisogno energetico, facendo discriminazione tra sedentarietà e attività fisica, non fra alimenti buoni e alimenti cattivi, cosa che inevitabilmente distoglierebbe l´attenzione dallo stile di vita”. Se la parola passa al mondo dell’industria, la reazione, come è logico, è ancora più radicale. Filippo Ferrua Magliani, Presidente di Federalimentare – l’associazione che rappresenta le tutte le industrie produttrici del food&drink del nostro Paese - rifiuta l’ipotesi di tassa di scopo destinata a compensare alcune misure di rimodulazione della spesa sanitaria di competenza regionale per due diverse ragioni. La prima, di principio: “E’ un’ipotesi che non ho difficoltà a definire malaugurata perché ritengo – a nome dell’industria alimentare del Paese – che la tutela sanitaria dei nostri cittadini non si persegue con le tasse ma con l’educazione alimentare. Non esistono cibi cattivi di per sé: occorre adottare corrette diete e modalità e frequenze di consumo. E, a questo proposito, Federalimentare ha sottoscritto due protocolli molto impegnativi con il Ministero dell’Istruzione per dar vita al piano formativo del programma Scuola e Cibo, e con il Ministero della Salute per le azioni condivise nell’ambito del programma Guadagnare Salute, in particolare la auto disciplina della comunicazione commerciale ai bambini e la riformulazione dei prodotti.” La seconda ragione è invece relativa alla sostanza e agli effetti della tassa ipotizzata: “Esiste una vasta letteratura scientifica che testimonia l’inefficacia di politiche sanitarie rivolte a penalizzare alcuni consumi alimentari ritenuti, impropriamente, come testimoniano molti esperti, dannosi. Oltre alla distorsione di concorrenza e al rinforzo delle spinte recessive, purtroppo già operanti nel nostro Paese, il risultato sarebbe paradossale. I consumatori, costretti a salvare i cosiddetti consumi anaelastici – quelli dei quali, come la benzina, non si può fare a meno – di fronte a un aumento dei prezzi di quelli elastici, dirotterebbero le proprie scelte verso prodotti analoghi, più economici e di peggiore qualità, intaccando in questo modo non solo il potere d’acquisto ma anche la qualità della dieta. L’effetto sarebbe dunque esattamente l’opposto di quello auspicato , generando inoltre gravi effetti sull’occupazione del nostro settore”.  
   
 

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