|
|
|
LUNEDI
|
|
|
Notiziario Marketpress di
Lunedì 08 Luglio 2013 |
|
|
|
RINVIO DELL’INCREMENTO DELL’ALIQUOTA IVA AL 1° OTTOBRE 2013 |
|
|
|
|
|
La Legge 24 dicembre 2012, n. 228, cosiddetta legge di stabilità 2013, con una modifica apportata al Decreto n. 98/2011, come modificato dal D.l. N. 95/2012, il c.D. “Manovra Correttiva” aveva disposto a decorrere dal 1° luglio 2013, l´incremento dell´attuale aliquota Iva ordinaria del 21% di un punto percentuale. Da tale data, pertanto, l’aliquota Iva sarebbe dovuta passare dal 21% al 22%. Nessuna modifica invece era stata disposta con riferimento alle aliquote Iva ridotte del 4% e del 10%. A pochi giorni da tale scadenza, il Governo, ha approvato la norma che ha rinviato al 1° ottobre 2013 l’aumento dell’aliquota iva ordinaria. Salvo ulteriori rinvii, la nuova aliquota (22%) si applicherà alle operazioni Iva effettuate a partire da tale data. Per le operazioni effettuate fino al 30 settembre 2013 resta ancora applicabile l’aliquota del 21% |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
AUMENTO DELLE MARCHE DA BOLLO |
|
|
|
|
|
Il costo delle marche da bollo è aumentato dal 26 giugno, con l´entrata in vigore della Legge n. 71/13 di conversione del Decreto legge n . 43/2013 Il rialzo esclude tutti gli atti finalizzati entro il 25 di giugno, anche nel caso siano stati presentati a un ufficio pubblico, per la registrazione, in una data successiva. Gli importi fissati a 1,81 euro e 14,62 euro crescono, rispettivamente, fino a 2 euro e 16 euro. Nel dettaglio, l´imposta che è pari a euro 2 riguarda: le fatture che contengono importi non assoggettati ad Iva; gli estratti conti o altri documenti di accreditamento o addebitamento per somme superiori a euro 77,47; ricevute o lettere commerciali presentate per l´incasso presso gli istituti di credito per somme inferiori a 129,11 euro. L´aumento da 14,62 a euro 16 euro include gli atti rogati o autenticati da un notaio o altro pubblico ufficiale; le scritture private contenenti convenzioni anche unilaterali che regolino rapporti giuridici di qualsiasi specie; istanze, memorie, ricorsi, dirette agli organi dell´amministrazione dello Stato e degli enti pubblici territoriali tendenti ad ottenere rilasci di certificati, cioè provvedimenti amministrativi. La marca da bollo non è dovuta se: l´importo indicato sul documento è inferiore a 77,47 euro; si tratta di quote associative e contributi liberali/donazioni ad associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali e sportive (D.p.r. 26 ottobre 1972, n. 642); l´importo è assoggettato all´Iva; il documento è già assoggettato ad imposta di bollo o esente per legge. L´aumento di queste marche da bollo servirà a recuperare 1,2 miliardi di euro per la ricostruzione in Abruzzo, a seguito del disastro sismico, con la riparazione degli immobili danneggiati e la costruzione di nuove abitazioni |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
GLI EDITORI ITALIANI SCRIVONO A LETTA SUL DECRETO ECOBONUS - POLILLO (AIE): “PRESIDENTE LETTA CI RIPENSI. E’ UN PROVVEDIMENTO ILLOGICO, CHE DANNEGGIA LA CULTURA ” - SI TRADURRÀ IN UN PREZZO MEDIO MAGGIORATO IN MEDIA DEL 6% SUI LIBRI CON ALLEGATO |
|
|
|
|
|
Un ripensamento sull’aumento dell’Iva sui prodotti culturali. È quanto chiede con forza il presidente dell’Associazione Italiana Editori (Aie) Marco Polillo con una lettera inviata al Premier Letta per “un opportuno emendamento del Governo, o un atteggiamento meno ostile di fronte ad iniziative parlamentari volte a ricercare un’adeguata soluzione” rispetto alla previsione di un incremento dell’Iva dal 4 al 21% per tutti gli abbinamenti editoriali, non solo in riferimento ai gadget ma anche ai beni che integrano e sono di complemento ai libri e periodici e sono pertanto funzionali al loro utilizzo. “Nel settore librario – prosegue Polillo nella lettera - ciò significa colpire soprattutto i contenuti digitali innovativi allegati ai libri. I prodotti più colpiti sono i libri educativi (libri scolastici, universitari, sussidi come dizionari o enciclopedie) che spesso hanno un’estensione digitale: eserciziari, approfondimenti, simulazioni di laboratorio virtuale, ecc.; i libri per bambini – spesso accompagnati da audio-letture –; quelli professionali o preziose operazioni culturali basate sul multimediale (si pensi ai testi teatrali accompagnati dal video di una rappresentazione). La misura è, quindi, per noi, semplicemente incomprensibile, perché illogica e contraria a una serie di obiettivi politici che il Governo da lei guidato ha assunto. In primis, contraddice il suo personale impegno: “mai più tagli alla cultura”, così come “contraddice l’impegno a favore del digitale nella scuola e nell’università”. Le ricadute? Molto importanti per l’industria editoriale ma anche per i consumatori: il provvedimento, se passasse, comporterebbe un maggiore onere medio sull’insieme del prodotto con abbinamento di circa il 6%. Ciò significa prezzi più alti, in particolare per i libri di scuola e per bambini, e un’ulteriore caduta della domanda, che vanificherebbe anche gli obiettivi di gettito. “Non si sta chiedendo alle imprese culturali un sacrificio marginale – ha concluso Polillo nel suo testo al Premier -, necessario in tempi difficili per far quadrare i conti dello Stato. Le si sta colpendo ingiustificatamente e illogicamente senza che da ciò possa derivare un beneficio per alcuno, e men che meno per i conti pubblici”. Info: http://www.aie.it/ |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
INTERESSI DI MORA PIÙ CARI DAL 1° MAGGIO 2013 - SULLE CARTELLE ESATTORIALI CI SARÀ UNA CALDA ESTATE |
|
|
|
|
|
Ci dicono che il Fisco sarebbe diventato più "umano" e sensibile ai problemi dei cittadini anche in ragione della crisi economica, ma ci prendono letteralmente "in giro". Perché se da una parte con il cosiddetto decreto "Fare" ci buttano un po´ di fumo negli occhi, dall´altra tolgono dalle tasche degli italiani, nel silenzio pressoché generale di una politica bipartisan complice di disparità e diseguaglianze. Questa volta, in tal senso, lo “Sportello dei Diritti”, spiega il fondatore Giovanni D´agata, attraverso un articolata disamina da parte degli avvocati tributaristi Maurizio Villani e Idalisa Lamorgese della normativa vigente e dei recenti provvedimenti, denuncia pubblicamente lo scandalo degli interessi moratori applicati in caso di ritardo nel pagamento di imposte, tributi e sanzioni che in un momento di gravissima e profonda crisi economica aumentano per effetto di sciagurate misure, andando così a gravare ancor di più sulle condizioni a dir poco precarie delle famiglie e delle imprese italiane e creano scompensi e diseguaglianze quando a rimborsare, al contrario dev´essere il Fisco. Di seguito, andiamo a spiegare attraverso la dettagliata analisi dei due tributaristi, cosa sta accadendo in materia nel nostro Paese per invocare un intervento immediato del governo volto a perequare tali divergenze e a ridurre gli aggravi a carico dei contribuenti. L’art. 1, comma 150, della legge 24 dicembre 2007 n. 244 stabilisce che “Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, emanato ai sensi dell’articolo 13, comma 1, della legge 13 maggio 1999, n. 133, sono stabilite le misure, anche differenziate, degli interessi per il versamento, la riscossione e i rimborsi di ogni tributo, anche in ipotesi diverse da quelle previste dall’articolo 13 del decreto-legge 30 dicembre 1993, n. 557, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1994, n. 133, nei limiti di tre punti percentuali di differenza rispetto al tasso di interesse fissato ai sensi dell’articolo 1284 del codice civile, salva la determinazione degli interessi di mora ai sensi dell’articolo 30 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni”. L’articolo 30 del citato D.p.r. 29 settembre 1973, n. 602 stabilisce che: “Decorso inutilmente il termine previsto dall’articolo 25, comma 2, sulle somme iscritte a ruolo, escluse le sanzioni pecuniarie tributarie e gli interessi, si applicano, a partire dalla data della notifica della cartella e fino alla data del pagamento, gli interessi di mora al tasso determinato annualmente con decreto del Ministro delle Finanze con riguardo alla media dei tassi bancari attivi”. Premesso ciò, per la prima volta, dopo tre anni, con provvedimento del direttore dell’Agenzia dell’Entrate del 4 marzo scorso emesso - appunto - ai sensi e per gli effetti dell’articolo 30 del D.p.r. 29 settembre 1973, n. 602 gli interessi di mora (quelli dovuti dal debitore per il ritardo nel pagamento) tornano a salire e in un momento in cui è particolarmente difficile per cittadini e imprese onorare gli impegni assunti, sia per effetto della congiuntura economica sfavorevole ma anche a causa della contrazione del canale di accesso al capitale di credito erogato da banche e istituti finanziari, tale previsione non può certamente accogliersi con favore. Di conseguenza, a far data dal 1° maggio 2013 il nuovo tasso su base annua è salito dal 4,5504% al 5,2233% e, pertanto, pagare in ritardo una cartella esattoriale (dopo il 61° giorno dalla data di notifica della cartella di pagamento) costerà di più. In sostanza, se il debitore non provvede al pagamento dell’importo dovuto nel termine di 60 giorni, scattano oltre agli interessi di mora maturati giornalmente dalla data di notifica sulle somme iscritte a ruolo, anche eventuali spese connesse al mancato o ritardato pagamento. Nelle “motivazioni” del provvedimento ministeriale si legge testualmente che: “…..Considerato che, come detto, l’art. 30 prevede una determinazione annuale del tasso di interesse in questione, è stata interessata la Banca d’Italia che, con nota dell’8 febbraio 2013, ha stimato al 5,2233% la media dei tassi bancari attivi con riferimento al periodo 1.1.2012 – 31.12.2012. Il presente provvedimento fissa, dunque, con effetto dal 1° maggio 2013, al 5,2233% in ragione annuale, la misura del tasso di interesse da applicare nelle ipotesi di ritardato pagamento delle somme iscritte a ruolo, di cui all’articolo 30 del D.p.r. 29 settembre 1973, n. 602.” A tal proposito non si può trascurare di sottolineare che nel tempo vari decreti ministeriali si sono succeduti modificando, di volta in volta, l’ammontare dei tassi di interesse applicabili, ma ancora non si è risolto il problema della disparità di trattamento sull’applicazione degli interessi. Infatti, continuiamo a chiederci in base a quale criterio e a quale norma di legge vi sia una differenza tra gli interessi spettanti all’Amministrazione Finanziaria e gli interessi che si applicano ai rimborsi in favore del contribuente. Infatti - come noto - sulle somme dovute dai cittadini contribuenti o dall’Amministrazione Finanziaria maturano ovviamente degli interessi a favore dell’una o dell’altra parte a seconda delle diverse situazioni. Orbene, l’ammontare dei tassi di interesse sono stabiliti dalla legge o dai decreti ministeriali in misura assai differente a seconda che creditore della somma su cui tali interessi si applicano sia il contribuente o l’Amministrazione Finanziaria. Al contrario, è giusto dire che tale disparità non esiste in materia di tributi locali in quanto vi è una disposizione di legge che espressamente fissa l’ammontare degli interessi sui ritardati versamenti e quelli sui ritardati rimborsi nella stessa misura. In particolare, l’accertamento dei tributi locali è disciplinato dalla Legge 27 dicembre 2006 n. 296, che ne ha uniformato la disciplina. Per quel che qui interessa, giova porre l’attenzione sull’articolo 1, comma 165, che regolamenta la materia degli interessi applicabili ai tributi locali, stabilendo che i relativi tassi siano uguali per le ipotesi di versamento in ritardo dell’imposta da parte del contribuente e per le ipotesi di ritardati rimborsi nei confronti dei contribuenti. Infatti, l’art. 1, comma 165, suddetto stabilisce testualmente dispone che: “La misura annua degli interessi è determinata, da ciascun ente impositore, nei limiti di tre punti percentuali di differenza rispetto al tasso di interesse legale. Gli interessi sono calcolati con maturazione giorno per giorno con decorrenza dal giorno in cui sono divenuti esigibili. Interessi nella stessa misura spettano al contribuente per le somme ad esso dovute a decorrere dalla data dell’eseguito versamento”. Esaminiamo adesso, riprendendo anche un nostro elaborato di poco tempo fa, come tale disparità di trattamento emerga in maniera rilevante soprattutto in materia di imposte sul reddito, di imposta sul valore aggiunto e di imposta di registro. Imposte sul reddito. Per i ritardati versamenti il contribuente dovrà pagare: a) gli interessi sulle somme accertate. L’articolo 20 del D.p.r. 29 settembre 1973 n. 602, stabilisce che: “Sulle imposte o sulle maggiori imposte dovute in base alla liquidazione ed al controllo formale della dichiarazione od all’accertamento d’ufficio si applicano, a partire dal giorno successivo a quello di scadenza del pagamento e fino alla data di consegna al concessionario dei ruoli nei quali tali imposte sono iscritte, gli interessi al tasso del 4 per cento annuo”. B) gli interessi per dilazione del pagamento. L’articolo 21 del D.p.r. 29 settembre 1973 n. 602, stabilisce che: “Sulle somme il cui pagamento è stato rateizzato o sospeso ai sensi dell’articolo 19, comma 1, si applicano gli interessi al tasso del 4,5 per cento annuo”. C) gli interessi di mora per ritardo nel pagamento delle somme iscritte a ruolo. L’articolo 30 del D.p.r 29 settembre 1973 n. 602, stabilisce che: “Decorso inutilmente il termine previsto dall’art. 25, comma 2, sulle somme iscritte a ruolo si applicano, a partire dalla data della notifica della cartella di pagamento e fino alla data del pagamento, gli interessi di mora al tasso determinato annualmente con decreto del Ministro delle Finanze con riguardo alla media dei tassi bancari attivi”. (Interessi che - come detto - a partire dal 1° maggio 2013 ammontano al 5,2233%). Nei casi di ritardati rimborsi da parte dell’Amministrazione Finanziaria di somme indebitamente versate dal contribuente, l’articolo 1, comma 1, del D. M. 21 maggio 2009 stabilisce che: “ Gli interessi per ritardato rimborso di imposte pagate e per rimborsi eseguiti mediante procedura automatizzata, previsti dagli articoli 44 e 44-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, sono dovuti nella misura del 2 per cento annuo e dell’1 per cento semestrale, a decorrere dal 1° gennaio 2010”. Iva. In materia di Iva (Imposta sul Valore Aggiunto) si rileva una genericità delle disposizioni riguardanti gli interessi applicabili ai ritardati versamenti dell’imposta, a seguito dell’abrogazione, avvenuta ai sensi dell’articolo 37, comma 1, del D. Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 del comma 3 dell’articolo 60 del D.p.r. 26 ottobre 1972 n. 633 il quale stabiliva che: “Sulle somme dovute a norma dei precedenti commi si applicano gli interessi calcolati al saggio indicato nell’art. 38-bis, con decorrenza dal sessantesimo giorno successivo alla scadenza del termine del 5 marzo dell’anno solare cui si riferisce l’accertamento o la rettifica.” Pertanto, al ritardato pagamento delle somme dovute dal contribuente si applicava sino al 1999 il tasso di interesse nella stessa misura stabilita per i ritardati rimborsi Iva da parte dell’amministrazione finanziaria, disciplinati appunto dall’art. 38-bis del D.p.r. 633/1972. Per quanto concerne gli interessi applicabili sulle somme accertate, l’art. 3-bis del D. Lgs. 18 dicembre 1997 n. 462, introdotto dalla legge n. 244 del 24 dicembre 2007, disciplina la rateazione delle somme dovute a seguito di liquidazione automatica, fissando il relativo tasso di interessi applicabile al 3,5 per cento annuo. Infatti, l’articolo sopra citato al comma 3 stabilisce che: “L’importo della prima rata deve essere versato entro il termine di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione. Sull’importo delle rate successive sono dovuti gli interessi al tasso del 3,5 per cento annuo, calcolati dal primo giorno del secondo mese successivo a quello di elaborazione della comunicazione. Le rate trimestrali nella quali il pagamento è dilazionato scadono l’ultimo giorno di ciascun trimestre”. Venendo alla disciplina degli interessi applicabili sui rimborsi in materia di Iva, gli articoli cui fare riferimento sono gli artt. 38-bis, 38-bis1, 38-bis2 e 38-ter del D.p.r. 633/1972. La misura dell’interesse annuo di cui all’art. 38-bis sopra citato è stata, poi, rideterminata dall’articolo 1, comma 2, del D. M. 21 maggio 2009 con effetto a decorrere dal 1° gennaio 2010. Infatti, l’articolo 1, comma 2, del D. M. 21 maggio 2009 così recita: “Gli interessi per i rimborsi in materia di imposta sul valore aggiunto, previsti dagli articoli 38-bis e 38-ter del D.p.r. 26 ottobre 1972 n. 633, sono dovuti nella misura del 2 per cento annuo, a decorrere dall’1 gennaio 2010”. Imposta di registro. In materia di imposta di registro, rileva, ai fini della nostra analisi, il comma 4 dell’articolo 55 del D.p.r. 26 aprile 1986 n. 131. Il suddetto articolo disciplina in particolare la riscossione dell’imposta successivamente alla registrazione e stabilisce che: “Il pagamento dell’imposta complementare, dovuta in base all’accertamento del valore imponibile o alla presentazione di una delle denunce previste dall’articolo 19, deve essere eseguito entro sessanta giorni da quello in cui è avvenuta la notifica della relativa liquidazione. Il pagamento delle imposte suppletive deve essere eseguito entro sessanta giorni da quello in cui è avvenuta la notifica della relativa liquidazione. Il pagamento delle imposte e delle sanzioni amministrative eseguito successivamente alla registrazione deve risultare da apposita quietanza indicante gli estremi di registrazione dell’atto e le generalità del soggetto che ha eseguito il pagamento. Per gli interessi di mora si applicano le disposizioni delle leggi 26 gennaio 1961, n. 29, 28 marzo 1962, n. 147 e 18 aprile 1978, n. 130”. Come evidenziato, l’articolo 55 del D.p.r. 26 aprile 1986 n. 131 al comma 4 richiama, per l’applicazione degli interessi di mora, la legge del 26 gennaio 1961, n. 29 che stabilisce quanto segue. Art. 1 “Sulle somme dovute all’Erario per tasse e imposte indirette sugli affari si applicano gli interessi moratori nella misura semestrale dell’1,375 per cento da computarsi per ogni semestre compiuto”. Art. 2 “Gli interessi si computano a decorrere dal giorno in cui il tributo è divenuto esigibile ai sensi delle vigenti disposizioni”. Art. 3 “In caso di omissione di formalità o di omessa autotassazione, o di insufficiente o mancata denuncia, gli interessi si computano dal giorno in cui la tassa o l’imposta sarebbe stata dovuta se la formalità fosse stata eseguita o l’autotassazione effettuata o la denuncia presentata in forma completa e fedele”. Art. 4 “Gli interessi sono dovuti indipendentemente dall’applicazione di ogni penalità o sopratassa prevista dalle singole leggi tributarie”. Art. 5 “Sulle somme pagate per tasse e imposte indirette sugli affari e ritenute non dovute a seguito di provvedimento in sede amministrativa o giudiziaria spettano al contribuente gli interessi di mora nella misura di cui al precedente art. 1 a decorrere dalla data della domanda di rimborso”. In realtà, come già detto, anche con riferimento a questa fattispecie, il D. M. 21 maggio 2009 ha modificato la misura del tasso di interesse sia per quanto concerne il ritardato pagamento da parte del contribuente sia per quanto concerne il ritardato rimborso da parte dell’Amministrazione Finanziaria. Infatti, con riferimento al ritardato pagamento da parte del contribuente, l’articolo 6, comma 2, lett. B, del D. M. 21 maggio 2009 stabilisce che: “A decorrere dal 1° gennaio 2010 sono stabiliti al tasso del 3,5 per cento annuo gli interessi relativi alle somme dovute a seguito di pagamento dell’imposta di registro, di donazione, ipotecaria e catastale entro i termini previsti dagli articoli 54, comma 5, e 55, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131”. Mentre, con riferimento ai rimborsi da parte dell’Amministrazione Finanziaria, l’articolo 1, comma 4, del D. M. 21 maggio 2009 dispone che: “Gli interessi per i rimborsi delle somme non dovute per tasse e imposte indirette sugli affari, previsti dagli articoli 1 e 5 della legge 26 gennaio 1961, n. 29 sono dovuti nella misura dell’1 per cento per ogni semestre compiuto, a decorrere dal 1° gennaio 2010”. Da quanto chiarito si evince, dunque, e si ribadisce, che ancora una volta le posizioni del Fisco e del contribuente non sono su un piano di parità. Perché il Fisco quando rimborsa applica interessi inferiori rispetto a quanto richiede dal contribuente in caso di accertamento o iscrizione a ruolo? Ci sono gli estremi di una illegittimità costituzionale, in violazione del principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione. Il pagamento degli interessi di mora deve avvenire nella stessa misura e non può essere diverso a seconda che creditore di tali somme sia l’Amministrazione Finanziaria o il contribuente. È quindi auspicabile un intervento del Legislatore, che sani questa illegittima disparità di trattamento tra il fisco ed il cittadino-contribuente, che riveda alcuni aspetti della riscossione dei tributi, introducendo elementi di flessibilità che consentano di contemperare la tutela degli interessi erariali con quella, altrettanto fondamentale, di preservare la sopravvivenza economica delle famiglie e delle imprese colpite dalla crisi |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
MOBBING: RISARCITO PER IL DANNO BIOLOGICO, MORALE ED ESISTENZIALE IL LAVORATORE PRIVATO INGIUSTAMENTE DI TUTTE LE SUE MANSIONI |
|
|
|
|
|
Ha diritto ad essere risarcito sia del danno biologico, che di quello morale ed esistenziale il lavoratore privato ingiustamente di tutte le sue mansioni. Lo ha stabilito la sezione lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza 16413 depositata lo scorso 28 giugno che ha anche precisato che nella fattispecie non sussiste alcuna duplicazione del ristoro in quanto il pregiudizio riguarda diversi aspetti ed in particolare: l’immagine professionale, la salute psicofisica e la sofferenza interiore. I giudici della Suprema Corte, nel caso in questione hanno respinto il ricorso di un’azienda che aveva alle sue dipendenze un lavoratore che, trasferito presso un’altra sede, era stato privato di ogni incarico lavorativo e completamente isolato, tanto da ammalarsi di depressione. La società aveva impugnato la decisione della Corte d’Appello di Lecce che aveva a sua volta confermato la precedente sentenza del tribunale di Taranto che aveva riconosciuto la sussistenza sia del danno biologico nella misura del 35% (oltre 80mila euro) che di quello morale nonché di quello esistenziale (quantificati in più di 15mila euro). Il datore di lavoro aveva proposto ricorso davanti ai giudici di legittimità ribadendo che la corte di merito non aveva attribuito rilevanza alla circostanza che lo stato di parziale inattività non era addebitabile a una scelta volontaria della società, ma era piuttosto l´effetto di ragioni tecnico produttive obiettive, fatte nell´ambito di una manovra tesa a consentire la salvaguardia di alcuni profili professionali ed il risultato di una consensuale valutazione per mantenere la posizione lavorativa del lavoratore a Taranto. Ma i giudici del Palazzaccio non hanno ritenuto fondate le doglianze dell’azienda ed hanno ribadito le necessità di integrale tutela del lavoratore. Ricordano gli Ermellini che, in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato o sia stato erroneamente sottostimato, “rileva non il nome assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall´attore (biologico, morale, esistenziale) ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice”. Si ha, quindi, duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia stato liquidato due volte, sebbene con l´uso di nomi diversi. In altri termini, non si riscontra alcuna duplicazione laddove le voci risarcitorie hanno distintamente riguardato il danno biologico (inteso come mera lesione della integrità psicofisica), il danno morale (inteso come sofferenza interiore temporanea causata dalla commissione di un fatto illecito), il danno esistenziale (inteso come umiliazione delle capacità ed attitudini lavorative con pregiudizio all´immagine del dipendente sul luogo di lavoro). Per Giovanni D´agata, presidente e fondatore dell’associazione “Sportello dei Diritti”, che da anni si batte per la tutela dei lavoratori dai soprusi datoriali, si tratta di un’importante decisione che offre un significativo contributo di riflessione a tutti quei dipendenti che si sentono umiliati nelle loro legittime aspirazioni e diritti, con particolare riferimento a quello di svolgere le mansioni a cui dovrebbero essere assegnati in ragione delle loro capacità e del contratto di lavoro sottoscritto |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
CASSAZIONE: RISARCIBILI AL LAVORATORE CHE VIENE ADIBITO A MANSIONI DEQUALIFICANTI I DANNI DA "STRAINING" |
|
|
|
|
|
Al lavoratore confinato nello sgabuzzino riconosciuti i danni da “straining” per le lesioni subite a causa del comportamento dei superiori che lo hanno “messo in mezzo” Non viene riconosciuto il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’articolo 572 del Codice Penale perché si tratta di grande azienda e manca il requisito della familiarità ma non sono esclusi altri profili illeciti nei confronti del dipendente mobbizzato che ha comunque diritto al risarcimento del danno in sede civile Significativa decisione della Cassazione penale in tema di maltrattamenti e vessazioni subiti dal lavoratore. Con la sentenza 28603/13, della sesta sezione penale della Suprema Corte, pubblicata il 3 luglio dell’anno in corso, non è stata riconosciuta la sussistenza del reato di “maltrattamenti in famiglia” a carico dei dirigenti che hanno mobbizzato il lavoratore, ma non è stato escluso che i danni causati al dipendente preso di mira dallo “straining”, cioè la marginalizzazione e l’offensiva dequalificazione sul lavoro, possano configurare il reato di lesioni personali volontarie laddove pur escludendo, come detto, il delitto rubricato all’articolo 572 del codice penale non vi siano anche altri profili meritevoli di eventuale sanzione sul piano penale, come le lesioni personali, e quindi tali da poter determinare il diritto al risarcimento danni. Nel caso in questione, in particolare, è stato accolto il ricorso della parte civile in relazione alla sentenza di assoluzione pronunciata nei confronti dei dirigenti che deve essere annullata solo agli effetti civili con riferimento al reato di lesioni personali. Viene cosi deciso il rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello, non essendo possibile un nuovo giudicato penale in assenza di impugnazione da parte del P.m. Una bella vittoria del lavoratore messo all’angolo dai propri capi, che per Giovanni D’agata presidente e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, vale la pena diffondere per gli effetti positivi che può avere sia in materia di tutela dei lavoratori, che in via preventiva per dissuadere i datori e i superiori gerarchici da comportamenti analoghi che purtroppo si verificano puntualmente sui luoghi di lavoro nostrani. Si tratta, infatti, del caso tipico del lavoratore italiano che in precedenza aveva un incarico di responsabilità, ed in seguito viene preso di mira dai superiori che lo emarginano progressivamente fino a confinarlo in uno sgabuzzino spoglio e sporco, dopo averlo sottoposto persino ad un pubblico “processo”: è un evidente caso di “straining”, una particolare forma di persecuzione sul lavoro che viene attuata ponendo sempre in condizione di inferiorità il dipendente che, come si suol dire, viene “messo in mezzo”. Gli ermellini prendono atto che il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’articolo 572 del codice penale non possa configurarsi nei casi di mobbing nelle grandi aziende è un dato di fatto poiché la fattispecie incriminatrice deve comunque essere caratterizzata dal tratto della “familiarità”, che ricorre soltanto nei piccoli contesti lavorativi e “para - familiari”, per esempio nel rapporto che lega il collaboratore domestico alla famiglia presso cui è impiegato, mentre nel caso preso in esame è esclusa perché si tratta di azienda “complessa”. Tale assunto però non esclude che al di là del delitto di maltrattamenti, non possano configurarsi ugualmente le lesioni personali volontarie, per la diversa obiettività giuridica delle due ipotesi criminose: nella specie il lavoratore demansionato ed esiliato nello stanzino delle scope patisce la situazione al punto da ammalarsi, laddove gli è diagnosticato un disturbo dell’adattamento e depressione |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
GIUSTIZIA EUROPEA: CONTRARIA AL DIRITTO UE LA NORMATIVA ITALIANA SULLE PENSIONI DEI FUNZIONARI INTERNAZIONALI (SENTENZA C-233/12)
|
|
|
|
|
|
È contraria al diritto Ue la normativa italiana che non consente di prendere in considerazione i periodi di lavoro che un cittadino ha compiuto presso un’organizzazione internazionale situata nel territorio di un altro Stato membro, ai fini della pensione di vecchiaia. L’ueb è un’organizzazione internazionale creata dalla Convenzione sulla concessione di brevetti europei del 1973 ed ha sede a Monaco di Baviera. Essa dispone di un proprio regime pensionistico, distinto da quelli degli Stati membri e da quello dell’Unione. Il personale dell’Ueb può trasferire il capitale dei diritti maturati precedentemente presso altri regimi pensionistici, a condizione che questi lo consentano. In tal caso, l’Ueb determina, secondo le proprie regole, il numero degli anni di servizio riconoscibile e, di conseguenza, la pensione di vecchiaia che spetta al lavoratore. Il regolamento dell’Ueb non prevede, per contro, la totalizzazione dei periodi contributivi, ossia la possibilità di cumulare gli anni accreditati presso l’Ueb con i diritti maturati nell’ambito di altri regimi pensionistici. In Italia, il trasferimento dei diritti a pensione è riservato ai dipendenti del settore pubblico o privato iscritti a forme obbligatorie di previdenza. I funzionari e gli agenti dell’Unione europea possono beneficiare del trasferimento del capitale che rappresenta i diritti a pensione maturati in precedenza in Italia. Gli agenti dell’Ueb sono invece esclusi, da un lato, dal meccanismo del trasferimento, poiché non esistono in merito convenzioni tra l’Ueb e l’Italia. La totalizzazione dei periodi contributivi] non si applica, d’altro lato, ai dipendenti dell’Ueb che, in quanto agenti di un’organizzazione internazionale, non possono essere considerati «soggetti alla legislazione di uno o più Stati membri». Il sig. Gardella è cittadino italiano e lavora all’Ueb dal 1° maggio 2002. Precedentemente aveva lavorato in Italia dal 21 dicembre 1992 al 30 aprile 2002. La sua richiesta all’Inps di trasferire al regime previdenziale dell’Ueb il capitale che rappresentava i diritti a pensione maturati nel corso di tale periodo è stata respinta, a causa dell’inesistenza, in Italia, di disposizioni che consentissero il trasferimento. Il Tribunale di La Spezia, adito dal Gardella, si è rivolto alla Corte di giustizia chiedendo se il diritto Ue ammetta una normativa che non consenta ai suoi cittadini, dipendenti di un’organizzazione internazionale, quale l’Ueb, di trasferire al regime previdenziale di tale organizzazione il capitale che rappresenta i diritti a pensione da essi maturati in precedenza nel loro Stato membro d’origine, in assenza di una convenzione internazionale tra tale Stato membro e detta organizzazione internazionale che disciplini tale trasferimento. Nella sua sentenza odierna, la Corte ricorda, anzitutto, che il cittadino dell’Unione che usufruisca del diritto alla libera circolazione dei lavoratori e abbia esercitato un’attività lavorativa in uno Stato membro diverso da quello di cui è originario, gode del diritto alla libera circolazione (ex art. 45 Tfue). Lo stesso vale per il cittadino dell’Unione che lavori in uno Stato membro diverso dal suo Stato d’origine e che abbia accettato un impiego in un’organizzazione internazionale. La Corte constata che la facoltà accordata dallo Statuto dei funzionari dell’Unione europea di trasferire al regime pensionistico dell’Unione il capitale che rappresenta i diritti a pensione maturati per le attività svolte in precedenza non può essere estesa ai funzionari dell’Ueb. L’ueb infatti non è un’istituzione né un organo dell’Unione al quale si applica detto Statuto. La Corte paragona quindi la situazione del sig. Gardella a quella dei cittadini che fanno uso del diritto alla libera circolazione all’interno dell’Unione, come lavoratori subordinati presso datori di lavoro che non sono istituzioni dell’Unione né organizzazioni internazionali o che esercitano un’attività lavorativa autonoma. Essa constata che, per quanto riguarda il coordinamento dei sistemi di previdenza sociale tra gli Stati membri, il Trattato Fue ed i regolamenti nn. 1408/71 e 883/2004 sono fondati sul principio della totalizzazione (o cumulo) dei periodi. Essi non prevedono norme concernenti il trasferimento del capitale. Pertanto il Tfue non obbliga uno Stato membro a prevedere la facoltà per il dipendente di un’organizzazione internazionale, quale l’Ueb, di trasferire il capitale che rappresenta i suoi diritti a pensione maturati in precedenza verso il regime pensionistico di tale organizzazione internazionale, né l’obbligo di concludere una convenzione internazionale a tal fine. Il sig. Gardella allega inoltre che, in caso di rigetto della sua domanda dinanzi al giudice del rinvio, egli rischia di perdere i diritti a pensione maturati in Italia, in quanto, da un lato, l’Ueb non applica la totalizzazione e, dall’altro, in Italia i suoi periodi di lavoro o di contribuzione non raggiungono il periodo minimo richiesto dalla legislazione nazionale per conferire il diritto alla pensione. La Corte rileva che il Tfue prevede l’attuazione di un sistema di cumulo dei periodi «presi in considerazione dalle varie legislazioni nazionali» ed i regolamenti n. 1408/71 e n. 883/2004, stabiliscono che devono essere totalizzati i periodi «maturati sotto la legislazione di ogni altro Stato membro». Tali disposizioni disciplinano i periodi relativi a un impiego presso l’Ueb. La Corte rileva però che privare un lavoratore del diritto alla totalizzazione dei periodi accreditati sotto la legislazione di più Stati membri, diritto riconosciuto, in generale a tutti i lavoratori presso tutti i datori di lavoro in uno Stato membro, ad eccezione delle organizzazioni internazionali costituirebbe un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori. Di conseguenza, un lavoratore come il sig. Gardella, una volta che abbia raggiunto l’età pensionabile, per avere diritto alla pensione di vecchiaia deve poter chiedere la totalizzazione dei periodi di lavoro in Italia e di quelli riguardanti l’impiego presso l’Ueb. Hanno presentato osservazioni nella causa il governo italiano, il governo ceco e il governo tedesco. I lavoratori dipendenti e autonomi e delle libere professioni. |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
GIUSTIZIA EUROPEA: LA CORTE CONFERMA L´ANNULLAMENTO DELLE AMMENDE A AALBERTS, AQUATIS E SIMPLEX PER INTESE SU MERCATO RAME (SENTENZA C-287/11 P)
|
|
|
|
|
|
Con decisione del 20 settembre 2006, la Commissione europea ha inflitto ammende di un importo complessivo di 314,76 milioni di euro a 30 società per avere partecipato a un’intesa nel settore dei raccordi in rame. Essa ha constatato la partecipazione dell’Aalberts Industries Nv, quale società controllante, e delle sue controllate Comap Sa (già Aquatis France Sas) e Simplex Armaturen, tra il 25 giugno 2003 e il 1° aprile 2004. La Commissione ha inflitto all’Aalberts un’ammenda di 100,80 milioni di euro, di cui 55,15 milioni in solido con le sue controllate Aquatis e Simplex, e un’ammenda supplementare in via solidale per ciascuna di queste due società. L’asserita infrazione sarebbe consistita nella fissazione di prezzi e nella conclusione di accordi su sconti, riduzioni e meccanismi di applicazione degli aumenti dei prezzi, nella ripartizione dei mercati nazionali e dei clienti, nello scambio di altre informazioni commerciali, nonché nella partecipazione a riunioni regolari. Le imprese hanno chiesto al Tribunale l’annullamento della decisione della Commissione o, in subordine, la riduzione delle loro ammende. Con sentenza del 24 marzo 2011, il Tribunale ha ritenuto che la Commissione, avendo considerato che le imprese avessero partecipato all’intesa tra il 25 giugno 2003 e il 1° aprile 2004, fosse incorsa in un errore ed ha annullato la decisione della Commissione e le ammende. Con la sentenza odierna, la Corte respinge l’impugnazione della Commissione. Pertanto, viene mantenuto fermo l’annullamento delle ammende da parte del Tribunale. (Corte di giustizia dell’Unione europea, Lussemburgo, 4 luglio 2013, Sentenza nella causa C-287/11 P, Commissione / Aalberts Industries Nv e a ) |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
GIUSTIZIA EUROPEA: LAVORATORI DISABILI - DATORI DI LAVORO DEVONO ADOTTARE PROVVEDIMENTI PRATICI ED EFFICACI A FAVORE DI TUTTI I LAVORATORI DISABILI (SENTENZA C-312/11)
|
|
|
|
|
|
Gli Stati membri devono imporre a tutti i datori di lavoro l’adozione di provvedimenti pratici ed efficaci a favore di tutti i disabili. Non avendo stabilito questo obbligo, l’Italia è venuta meno ai propri impegni derivanti dal diritto dell’Unione. La convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità - approvata a nome dell’Unione europea con una decisione del Consiglio Ue - ha lo scopo di promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone disabili e di promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità. La direttiva europea sulla parità di trattamento in materia di impiego si fonda sulla considerazione che la discriminazione basata su una disabilità può pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del Trattato, in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento della qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera circolazione delle persone. Tale direttiva stabilisce pertanto un quadro generale per la lotta a discriminazioni di questo tipo riguardo all’occupazione e alle condizioni di lavoro, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento. Per garantire ai disabili la parità di trattamento, la direttiva impone in particolare al datore di lavoro di adottare i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti comportino un onere finanziario sproporzionato. Tale onere non è sproporzionato quando è compensato in modo sufficiente da misure statali a favore dei disabili. Il diritto italiano include vari provvedimenti legislativi in materia di assistenza, integrazione sociale e diritti delle persone disabili, nonché di diritto al lavoro. La Commissione ha proposto dinanzi alla Corte di giustizia un ricorso per inadempimento, affermando che le garanzie e le agevolazioni previste a favore dei disabili in materia di occupazione dalla normativa italiana di trasposizione della direttiva non riguardano tutti i disabili, tutti i datori di lavoro e tutti i diversi aspetti del rapporto di lavoro. Peraltro, l’attuazione dei provvedimenti legislativi italiani sarebbe affidata all’adozione di misure ulteriori da parte delle autorità locali o alla conclusione di apposite convenzioni tra queste e i datori di lavoro e pertanto non conferirebbe ai disabili diritti azionabili direttamente in giudizio. Nell’odierna sentenza, la Corte dichiara che, se è vero che la nozione di «handicap» non è espressamente definita nella direttiva, essa deve essere intesa alla luce della convenzione dell’Onu, nel senso che si riferisce ad una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, le quali, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. La convenzione dell’Onu contempla poi un’ampia definizione degli «accomodamenti ragionevoli», con i quali intende gli adattamenti da prevedere in una determinata situazione per garantire alla persona disabile il godimento e l’esercizio di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali su base di uguaglianza con gli altri. Inoltre, la Corte ha già statuito che tale concetto si riferisce all’eliminazione delle barriere che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione delle persone disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Pertanto, gli Stati membri devono stabilire un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti efficaci e pratici (sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti) in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere a un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, senza tuttavia imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato. La Corte sottolinea che siffatto obbligo riguarda tutti i datori di lavoro. Non è sufficiente che gli Stati membri prevedano misure di incentivo e di sostegno, ma è loro compito imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete. La Corte esamina le varie misure adottate dall’Italia per l’inserimento professionale dei disabili e conclude che tali misure, anche ove valutate nel loro complesso, non impongono a tutti i datori di lavoro l’adozione di provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti delle condizioni di lavoro e consentano loro di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione. Di conseguenza, l’Italia è venuta meno ai propri obblighi. (Corte di giustizia dell’Unione europea, Lussemburgo, 4 luglio 2013, Sentenza nella causa C‑312/11 Commissione / Italia) |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
GIUSTIZIA EUROPEA: FARMACI - TRIBUNALE UE ANNULLA LA DECISIONE DELLA COMMISSIONE DI NON AUTORIZZARE IL COMMERCIO DELL’ORPHACOL (SENTENZA T-301/12)
|
|
|
|
|
|
Il Tribunale annulla la decisione con cui la Commissione ha negato l’autorizzazione all’immissione in commercio dell’Orphacol. L’autorizzazione all’immissione in commercio può essere rilasciata a tale medicinale orfano in considerazione di un impiego medico ben consolidato da oltre dieci anni. Il diritto dell’Unione europea prevede che ogni domanda di autorizzazione all’immissione in commercio (Aic) di un medicinale a uso umano dev’essere accompagnata da prove precliniche e cliniche dello stesso. Tuttavia, a titolo derogatorio, una procedura semplificata si applica ai medicinali orfani (vale a dire destinati al trattamento di malattie molto rare e gravi): il richiedente non è tenuto a fornire i risultati delle prove precliniche e cliniche, qualora possa dimostrare che le sostanze attive del medicinale sono di impiego medico ben consolidato da almeno dieci anni nell’Unione e presentano un’efficacia riconosciuta nonché un accettabile livello di sicurezza. In tal caso, i risultati di tali prove sono sostituiti da adeguata letteratura scientifica. La società Laboratoires Ctrs (Cell Therapies Research & Services) ha elaborato il medicinale Orphacol, la cui sostanza attiva è l’acido colico. Tale medicinale orfano è destinato a trattare patologie epatiche rare ma molto gravi. Tali malattie, in assenza di trattamento adeguato nelle prime settimane o nei primi mesi di vita, possono portare alla morte. Il 30 ottobre 2009 la Ctrs ha presentato richiesta di Aic per tale medicinale presso l’agenzia europea per i medicinali (Ema). Il comitato dei medicinali per uso umano (Cmuu), facente parte dell’Ema, ha emanato parere favorevole ed un parere rivisto, parimenti favorevole, che raccomandava la concessione di un’Aic, rispettivamente nel dicembre 2010 e nell’aprile 2011. Ciononostante, la Commissione ha sottoposto al comitato permanente per i medicinali per uso umano («comitato permanente»), nel luglio del 2011, un progetto di decisione recante diniego di rilascio di un’Aic alla Ctrs per l’Orphacol. Nell’ottobre del 2011, il comitato permanente ha emanato un parere sfavorevole sul progetto di decisione della Commissione recante diniego dell’Aic. Nello stesso mese, la Commissione ha sottoposto il progetto di decisione che negava il rilascio dell’Aic al comitato d’appello. Nel novembre del 2011, il comitato d’appello ha parimenti emanato un parere sfavorevole. In data 12 gennaio 2012, la Ctrs ha chiesto al Tribunale di dichiarare la carenza della Commissione in quanto l’Istituzione si sarebbe illegittimamente astenuta dall’adozione di una decisione definitiva in merito alla richiesta di Aic per il medicinale Orphacol e, in subordine, di annullare la decisione di diniego di rilascio dell’Aic medesima, asseritamente contenuta in una lettera della Commissione del 5 dicembre 2011. In data 4 luglio 2012, il Tribunale dell’Unione europea ha dichiarato che la domanda per carenza era irricevibile e che, considerato che la Commissione, con decisione di diniego di rilascio dell’Aic del 25 maggio 2012, aveva proceduto alla sostituzione della decisione di diniego di rilascio dell’Aic, asseritamente contenuta nella menzionata lettera del 5 dicembre 2011, non occorreva più statuire sulla domanda di annullamento di quest’ultima decisione. Il 10 luglio 2012, la Ctrs ha adito nuovamente il Tribunale per l’annullamento della decisione del 25 maggio 2012. Il Tribunale ha trattato la presente causa in via prioritaria. Con la sentenza odierna, il Tribunale annulla la decisione della Commissione del 25 maggio 2012, recante diniego di rilascio dell’Aic per il medicinale Orphacol. Il Tribunale rileva, anzitutto, che l’acido colico è stato utilizzato per trattare pazienti in Francia, nel periodo compreso fra il 1993 e l’ottobre del 2007, quale preparato ospedaliero rilasciato su prescrizione medica, preparato individualmente secondo le indicazioni della farmacopea e conformemente alle corrette prassi della normativa francese. Tali preparati ospedalieri vengono prescritti sotto stretto controllo medico nell’ambito di un nosocomio o istituto farmaceutico. Successivamente a tale data, capsule di acido colico sono state utilizzate in Francia, con il nome di Orphacol. Il Tribunale afferma che tali preparati ospedalieri sono volti a rispondere a «esigenze speciali» ai sensi del diritto dell’Unione, vale a dire a situazioni individuali giustificate da considerazioni mediche e sono necessari per rispondere ai bisogni del paziente. La Ctrs non era quindi tenuta, all’atto della richiesta di Aic, a fornire i risultati delle prove precliniche e cliniche richieste dal diritto dell’Unione. Il Tribunale respinge pertanto gli argomenti della Commissione relativi all’assenza di un impiego medico ben consolidato e dichiara che l’utilizzazione dell’acido colico, in quanto impiego medico ben consolidato, risulta dimostrato dalla Ctrs. Inoltre, il Tribunale ritiene che la Ctrs abbia dimostrato di non essere in grado di fornire informazioni complete sull’efficacia e l’innocuità del medicinale in condizioni normali di uso, in considerazione di determinate circostanze eccezionali ai sensi del diritto dell’Unione. Il Tribunale ricorda che il richiedente dell’Aic deve fornire nei riassunti non clinici e clinici le ragioni per le quali non è possibile fornire informazioni complete quanto all’efficacia e alla sicurezza del medicinale e che deve fornire una giustificazione del profilo rischio/beneficio per il medicinale orfano di cui trattasi, cosa che la Ctrs ha fatto nella specie. Essa ha effettivamente fornito una lista di riferimenti di letteratura scientifica relativa a studi attinenti all’acido colico e ha dimostrato di non essere in grado di fornire dati completi, da un lato, per ragioni obiettive e verificabili attinenti alla rarità della malattia e, dall’altro, per considerazioni deontologiche. Quanto alla prima ragione, risulta che, alla data di deposito della richiesta (30 ottobre 2009), solamente 90 pazienti risultavano affetti dalla malattia; fra questi, 19 erano trattati in Francia. Quando alla seconda ragione, il Cmuu ha ritenuto, senza che tale valutazione venisse rimessa in discussione dalla Commissione, che, considerato che la partecipazione ad una prova clinica esporrebbe i pazienti al rischio di lesioni epatiche gravi, se non al rischio di decesso, sarebbe contrario ai principi di deontologia medica effettuare uno studio controllato sull’efficacia dell’acido colico. Erroneamente quindi la Commissione ha ritenuto, nella propria decisione, che i dati presentati dalla Ctrs dovessero essere completi e che detta società non potesse invocare l’esistenza di circostanze eccezionali nell’ambito della propria richiesta fondata su un impiego medico ben consolidato. Conseguentemente, il Tribunale annulla la decisione della Commissione. (Tribunale dell’Unione europea, Lussemburgo, 4 2013, Sentenza nella causa T-301/12, Laboratoires Ctrs / Commissione) |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
GIUSTIZIA EUROPEA: È CONTRARIA AL DIRITTO UE LA NORMATIVA ITALIANA CHE NON CONSENTE DI PRENDERE IN CONSIDERAZIONE I PERIODI DI LAVORO CHE UN CITTADINO HA COMPIUTO PRESSO UN’ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE SITUATA NEL TERRITORIO DI UN ALTRO STATO MEMBRO, AI FINI DELLA PENSIONE DI VECCHIAIA |
|
|
|
|
|
È contraria al diritto Ue la normativa italiana che non consente di prendere in considerazione i periodi di lavoro che un cittadino ha compiuto presso un’organizzazione internazionale situata nel territorio di un altro Stato membro, ai fini della pensione di vecchiaia L’ueb è un’organizzazione internazionale creata dalla Convenzione sulla concessione di brevetti europei del 1973 ed ha sede a Monaco di Baviera. Essa dispone di un proprio regime pensionistico, distinto da quelli degli Stati membri e da quello dell’Unione. Il personale dell’Ueb può trasferire il capitale dei diritti maturati precedentemente presso altri regimi pensionistici, a condizione che questi lo consentano. In tal caso, l’Ueb determina, secondo le proprie regole, il numero degli anni di servizio riconoscibile e, di conseguenza, la pensione di vecchiaia che spetta al lavoratore. Il regolamento dell’Ueb non prevede, per contro, la totalizzazione dei periodi contributivi, ossia la possibilità di cumulare gli anni accreditati presso l’Ueb con i diritti maturati nell’ambito di altri regimi pensionistici. In Italia, il trasferimento dei diritti a pensione è riservato ai dipendenti del settore pubblico o privato iscritti a forme obbligatorie di previdenza. I funzionari e gli agenti dell’Unione europea possono beneficiare del trasferimento del capitale che rappresenta i diritti a pensione maturati in precedenza in Italia. Gli agenti dell’Ueb sono invece esclusi, da un lato, dal meccanismo del trasferimento, poiché non esistono in merito convenzioni tra l’Ueb e l’Italia. La totalizzazione dei periodi contributivi non si applica, d’altro lato, ai dipendenti dell’Ueb che, in quanto agenti di un’organizzazione internazionale, non possono essere considerati «soggetti alla legislazione di uno o più Stati membri». Il sig. Gardella è cittadino italiano e lavora all’Ueb dal 1° maggio 2002. Precedentemente aveva lavorato in Italia dal 21 dicembre 1992 al 30 aprile 2002. La sua richiesta all’Inps di trasferire al regime previdenziale dell’Ueb il capitale che rappresentava i diritti a pensione maturati nel corso di tale periodo è stata respinta, a causa dell’inesistenza, in Italia, di disposizioni che consentissero il trasferimento. Il Tribunale di La Spezia, adito dal Gardella, si è rivolto alla Corte di giustizia chiedendo se il diritto Ue ammetta una normativa che non consenta ai suoi cittadini, dipendenti di un’organizzazione internazionale, quale l’Ueb, di trasferire al regime previdenziale di tale organizzazione il capitale che rappresenta i diritti a pensione da essi maturati in precedenza nel loro Stato membro d’origine, in assenza di una convenzione internazionale tra tale Stato membro e detta organizzazione internazionale che disciplini tale trasferimento. Nella sua sentenza odierna, la Corte ricorda, anzitutto, che il cittadino dell’Unione che usufruisca del diritto alla libera circolazione dei lavoratori e abbia esercitato un’attività lavorativa in uno Stato membro diverso da quello di cui è originario, gode del diritto alla libera circolazione (ex art. 45 Tfue). Lo stesso vale per il cittadino dell’Unione che lavori in uno Stato membro diverso dal suo Stato d’origine e che abbia accettato un impiego in un’organizzazione internazionale. La Corte constata che la facoltà accordata dallo Statuto dei funzionari dell’Unione europea di trasferire al regime pensionistico dell’Unione il capitale che rappresenta i diritti a pensione maturati per le attività svolte in precedenza non può essere estesa ai funzionari dell’Ueb. L’ueb infatti non è un’istituzione né un organo dell’Unione al quale si applica detto Statuto. La Corte paragona quindi la situazione del sig. Gardella a quella dei cittadini che fanno uso del diritto alla libera circolazione all’interno dell’Unione, come lavoratori subordinati presso datori di lavoro che non sono istituzioni dell’Unione né organizzazioni internazionali o che esercitano un’attività lavorativa autonoma. Essa constata che, per quanto riguarda il coordinamento dei sistemi di previdenza sociale tra gli Stati membri, il Trattato Fue ed i regolamenti nn. 1408/71 e 883/2004 sono fondati sul principio della totalizzazione (o cumulo) dei periodi. Essi non prevedono norme concernenti il trasferimento del capitale. Pertanto il Tfue non obbliga uno Stato membro a prevedere la facoltà per il dipendente di un’organizzazione internazionale, quale l’Ueb, di trasferire il capitale che rappresenta i suoi diritti a pensione maturati in precedenza verso il regime pensionistico di tale organizzazione internazionale, né l’obbligo di concludere una convenzione internazionale a tal fine. Il sig. Gardella allega inoltre che, in caso di rigetto della sua domanda dinanzi al giudice del rinvio, egli rischia di perdere i diritti a pensione maturati in Italia, in quanto, da un lato, l’Ueb non applica la totalizzazione e, dall’altro, in Italia i suoi periodi di lavoro o di contribuzione non raggiungono il periodo minimo richiesto dalla legislazione nazionale per conferire il diritto alla pensione. La Corte rileva che il Tfue prevede l’attuazione di un sistema di cumulo dei periodi «presi in considerazione dalle varie legislazioni nazionali» ed i regolamenti n. 1408/71 e n. 883/2004, stabiliscono che devono essere totalizzati i periodi «maturati sotto la legislazione di ogni altro Stato membro». Tali disposizioni disciplinano i periodi relativi a un impiego presso l’Ueb. La Corte rileva però che privare un lavoratore del diritto alla totalizzazione dei periodi accreditati sotto la legislazione di più Stati membri, diritto riconosciuto, in generale a tutti i lavoratori presso tutti i datori di lavoro in uno Stato membro, ad eccezione delle organizzazioni internazionali costituirebbe un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori. Di conseguenza, un lavoratore come il sig. Gardella, una volta che abbia raggiunto l’età pensionabile, per avere diritto alla pensione di vecchiaia deve poter chiedere la totalizzazione dei periodi di lavoro in Italia e di quelli riguardanti l’impiego presso l’Ueb. Hanno presentato osservazioni nella causa il governo italiano, il governo ceco e il governo tedesco (Lussemburgo, giovedì 27 giugno 2013, Sentenza nella causa C‑233/12, Simone Gardella/istituto nazionale della previdenza sociale (Inps) |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|