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 Alessandra  Dal Ri

MARTEDI'
3  FEBBRAIO  2004


pagina 7

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Le Monde diplomatique, gennaio 2004

L'INDIA E' RESTIA ALLA TOTALE LIBERALIZZAZIONE 
Dopo Porto Alegre dal 2001 al 2003, il Forum Sociale Mondiale si e' riunito quest'anno a Mumbay,in India.Dalla fine degli anni'80 il paese si e' gradualmente aperto al commercio internazionale.Ma la liberalizzazione voluta dalla classe politica resta limitata. Non soltanto l'India non ha ceduto alle multinazionali, ma contribuisce a formare un blocco(sud), in seno all'organizzazione internazionale del commercio, con Sud Africa, Brasile, Cina.
di Christophe Jaffrelot

Creato negli anni'50 da Jawaharlal Nehru, il modello di sviluppo di sostituzione alle importazioni, si basa su quattro pilastri principali:una pianificazione centralizzata che favorisce l'industria, un ampio settore pubblico, solide barriere doganali, un sistema di autorizzazioni amministrative, (la licenza raj) attraverso cui lo stato regolava l'incremento e la diversificazione delle capacità produttive delle imprese private.Tale sistema ha permesso la formazione di una base economica  al riparo dalla concorrenza internazionale. Ha anche contribuito alla formazione di una grossa classe media di funzionari, e a contenere le diseguaglianze regionali, grazie ad una vera politica di gestione del territorio.Questo modello, ha tuttavia risentito del basso livello produttivo di un settore pubblico molto burocratizzato, sotto stretto controllo statale al fine di contenere gli scioperi. Cio' ha limitato la debole competitività delle imprese non esposte alla concorrenza, precludendo la formazione di economie di scala, e condizionando le strategie d'investimento. D'un tratto le esportazioni indiane all'estero sono passate dall'1,9 nel 1950 allo 0,6% nel 1973. Cio' malgrado l'India aveva bisogno di vendere all'estero, non potendo privarsi delle importazioni (di petrolio, ovviamente). Un'apertura difficoltosa fu elaborata da Gandhi negli anni '80, pero' i suoi pregiudizi verso le multinazionali, che percepiva come l'emblema dell'imperialismo occidentale, lo portarono a finanziare la modernizzazione con il prestito. Risultato: il debito estero sale a 72 milardi di dollari nel 1991.La crisi della bilancia dei pagamenti è tale che il paese nel giugno del'91 non possiede che l'equivalente in divise di quattro settimane di importazioni, ed e' costretto ad accettare un piano d'aggiustamento strutturale, elaborato dal Fondo Monetario Internazionale(FMI), e una delle condizini e' la liberalizzazione dell'economia. E di conseguenza l'abolizione della licenza raj, l'apertura delle imprese nazionali alle joint ventures per il 51%, la riduzione delle barriere doganali, e l'eliminazione delle quote d'importazione. I diritti doganali non si sono pero' ridotti che progressivamente e relativamente. Nel 1991 essi rappresentavano il 38% delle ritenute fiscali, arrivando mediamente al 79 % con alcune impennate del 400 %, che si abbassarono nel '93 al 110% e nel 2000/2001 al 35 %. Questa percentuale, ridotta nel 1996/97al 24,6 %, tocca il 30,2 % nel 1999/2000. Questa e' un'indicazione estremamente importante della relatività dell'attitudine indiana al neoliberalismo.
L'India non e' ancora passata attraverso l'impatto delle multinazionali.
Agli investitori esteri e' concesso di tenere il 100 % dell'azienda nel settore alberghiero, nel settore farmaceutico, e delle infrastrutture (trasporti, energia), oltre il 51% nell'industria automobilistica, tra il 49 e il 100 % nelle telecomunicazioni, tra il 20 % e il 40 % nel bancario.Tuttavia gli investimenti internazionali diretti (IDI), nell'ordine di 47 miuliardi di $, sono 10 volte inferiori a quelli cinesi (420 miliardi).E' anche vero che un certo numero di multinazionali presenti in India, cominciano a considerarla un paese"laboratorio", da cui potrebbero esportare prodotti competitivi, grazie al basso costo della mano d'opera, come la Hyunday , coreana, nel settore automobilistico. Tuttavia questo immenso paese resta debolmente integrato al commercio mondiale. Il tessile rappresenta ancora il 30 % delle esportazioni e l'agroalimentare il 15 %. In ogni modo le esportazioni di prodotti chimici sono passate dal 6,2 % nel 1980, al 14,7% nel 2001, segno della capacità indiana di imitare (copiare) le tecnologie estere. Intanto il settore informatico ha fatto altri passi avanti: con il 20% delle esportazioni mondiali, l'India è il primo venditore di servizi nelle tecnologie dell'informazione, prima dell'Irlanda e degli USA. Il tasso di crescita delle sue esportazioni è stato nel 2002 del 30 %. Di colpo la parte delle esportazioni relativa ai servizi é superiore in India rispetto alla Cina ( 3,9 % contro il 2,9%).
L'India resta tuttavia un "nano economico"a livello internazionale, con meno dell'1% del commercio mondiale, ed un bassissimo tasso di apertura: il commercio estero rappresenta solo il 9,8 % del commercio interno lordo(PNB). Le riforme degli anni'90 hanno contribuito a raddoppiarne la crescita. Il  tasso medio é passato dal 3,6 % tra il 1951 e il 1979 al 5,5 % negli anni '80 e al 6,5 % nel decennio successivo. Dal 1996 l 'India è dopo la Cina , il paese asiatico con il tasso maggiore di crescita (5, 5% contro il 7,6 %). Il suo debolissimo inserimento nel commercio mondiale spiega ovviamente perché sia stata cosi' poco toccata dalla crisi asiatica nel 1997. E cio' la dice lunga sul carattere molto addomesticato della liberalizzazione economica.
Oggi le autorità di New Dehli si sforzano di contenere la globalizzazione boicottando i progetti occidentali in seno all'OMC. Il fallimento di Cancun e' parzialmente dovuto a questo atteggiamento, visto che il potere indiano per l'occasione, e forse in modo più stabile, ha stretto un'alleanza con altri paesi del sud, la Cina , il Sud Africa, il Brasile.
Anche se il governo da anni auspica una seconda generazione di misure di liberalizzazione, dopo quella iniziale del 1991, quelle che vanno in questa direzione sono poco numerose, allo stesso modo della privatizzazione delle aziende pubbliche, ufficialmente chiamata, in modo eufemistico,"disinvestimento". Se gli obbiettivi prefissati, in termini di entrate, attesi da queste privatizzazioni, vanno dai 100 ai 130 miliardi di rupie l'anno, a partire dal 1999(tra 1,8 e 2,8 miliardi di euro), la somma realizzata, non ha mai raggiunto un terzo di tale somma. Nel 2003 la privatizzazione delle due maggiori aziende petrolifere, ha creato forti tensioni in seno alla maggioranza parlamentare. Se la classe politica si è convertita alla liberalizzazione, lo fa con prudenza. Vasti settori economici restano legati al carozzone statale per via dei legami che tale meccanismo impone in termini di clientelismo, essi rifiutano l'idea di alienarsi l'elettorato, mettendo sul lastrico migliaia di dipendenti,cosa che la privatizzazione delle aziende pubbliche non mancherebbe di causare(circa un terzo e' in deficit). La democrazia elettorale inibisce in India la logica liberale in moldo molto evidente. La rimessa in discussione delle leggi sociali che offrono ogni garanzia ai dipendenti, non e' per ora molto sentita. Se il patronato ed il governo sono desiderosi di attenuare gli effetti dell"Industrial Disputes Act", che dal' 47 rimette ogni decisione su querele di lavoro ai tribunali del lavoro, in particolare su licenziamenti abusivi, tuttavia gli attacchi a tale legislazione restano limitati. Cosi' per il "Contract Labour Act"(Abolition and Regulation), che regolamenta  forme di precariato, talvolta vicine al servilismo. Tali garanzie giuridiche ignorano tutto il settore non regolamentato e si riferiscono solo all'aristocrazia operaia delle fabbriche, e gli impiegati in colletto bianco,due gruppi che rappresentano un minuscolo milieu di salariati, per un totale del 7,5 % della popolazione attiva. Un altro indice di resistenza dello stato e del controllo che ancora esso esercita sull'economia, sono le"Cottages industries"(laboratori artigianali locali),che continuano a beneficiare di forti protezioni. Beneficiano di un monopolio, nei confronti delle grandi aziende di 674 prodotti, tra cui il settore giocattoli, non accessibili a queste ultime. Oppure le"small scales industries"(piccole aziende), che rappresentano il 45% della produzione industriale.Anche in questo caso i giochi elettorali sono venuti a contrastare le ambizioni riformiste degli economisti, che vedono in questa politica un freno alla concentrazione industriale ed all'inserimento nel mercato mondiale (il settore del giocattolo, per esempio è emblematico, se si paragona la situazione dell'India a quella dekla Cina, industria mondiale al riguardo).

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